NABOKOV SULLA BOXE (AZZ, COME SCRIVE L’AUTORE DI “LOLITA”!) – ‘’TUTTO GIOCA, A QUESTO MONDO: E POCHI SPETTACOLI SONO SANI E BELLI QUANTO IL COMBATTIMENTO TRA DUE UOMINI CON I GUANTONI’’ – “I TEDESCHI STESSI HANNO DI RECENTE CAPITO CHE CON IL PASSO DELL’OCA NON SI VA LONTANO, E CHE IL PUGILATO, IL CALCIO E L’HOCKEY SONO MOLTO PIÙ UTILI DI QUALSIASI ALTRO ESERCIZIO MILITARE E NON”….

Racconto inedito di Vladimir Nabokov pubblicato da "la Repubblica" - Traduzione di Luis E. Moriones

L'uomo gioca da quando esiste. Ci sono stati tempi - giorni di festa dell'umanità - in cui l'uomo era particolarmente appassionato ai giochi. Fu così nella Grecia antica, nell'antica Roma, ed è così nell'Europa dei nostri tempi. Un bambino sa che, per poter giocare in un modo soddisfacente, deve giocare con qualcun altro.

Tutto gioca, a questo mondo: il sangue nelle vene di un amante, il sole sull'acqua e il musicista con un violino. Tutte le cose buone nella vita - l'amore, la natura, le arti, o gli scherzi in famiglia - sono gioco. E in realtà, quando giochiamo - sia che buttiamo giù un battaglione di stagno con un pisello, sia che ci affrontiamo davanti alla rete da tennis - ciò che sentiamo nei nostri muscoli è l'essenza di quel gioco che domina il meraviglioso giocoliere, che lancia da una mano all'altra in un'ininterrotta e scintillante parabola i pianeti dell'universo.

L'uomo gioca da quando esiste. Ci sono stati tempi - giorni di festa dell'umanità - in cui l'uomo era particolarmente appassionato ai giochi. Fu così nella Grecia antica, nell'antica Roma, ed è così nell'Europa dei nostri tempi.

Un bambino sa che, per poter giocare in un modo soddisfacente, deve giocare con qualcun altro, o almeno immaginare un altro, deve diventare due. O, per dirla in altro modo, non c'è gioco senza competizione; che è poi il motivo per cui un certo tipo di giochi, come quelle esibizioni di ginnastica in cui una cinquantina di uomini e donne, muovendosi come una cosa sola, formano delle figure su un terreno da parate, ci sembra insipido, perché privo dell'unica cosa che dà al gioco il suo incanto, il suo fascino eccitante. Ed è per questo che il sistema comunista è così ridicolo, perché condanna ciascuno a fare gli stessi tediosi esercizi, non consentendo a nessuno di essere più in forma del proprio vicino.

Non per nulla Nelson disse che la battaglia di Trafalgar fu vinta nei campi di calcio e da tennis di Eton [sic]. I tedeschi stessi hanno di recente capito che con il passo dell'oca non si va lontano, e che il pugilato, il calcio e l'hockey sono molto più utili di qualsiasi altro esercizio militare e non. Il pugilato poi è particolarmente prezioso, e pochi spettacoli sono sani e belli quanto un incontro di boxe.

Un rigido gentleman, a cui non piace lavarsi nudo al mattino, incline a mostrarsi sorpreso scoprendo che un poeta che lavora per due connaisseurs e mezzo guadagna meno di un pugile che lavora per una folla di diverse migliaia di persone (una folla che, per inciso, non ha nulla a che vedere con le cosiddette masse ed è trascinata da una passione molto più pura, più sincera e benevola di quella della folla che dà il benvenuto agli eroi nazionali che ritornano a casa), questo stesso rigido gentleman proverà indignazione e disgusto nei confronti di un combattimento con i pugni, così come a Roma, molto probabilmente, c'erano persone che si accigliavano alla vista di due giganteschi gladiatori che esibivano il meglio delle arti gladiatorie, colpendosi a vicenda con tali mazzate d'acciaio da rendere inutile il pollice verso, tanto si sarebbero finiti l'un l'altro comunque.

(...). L'importante è, innanzi tutto, la bellezza dell'arte del pugilato, la precisione perfetta dell'allungo, i salti laterali, i tuffi, la gamma dei colpi - i ganci, i diretti, gli swipe - e, in secondo luogo, la fantastica emozione virile che quest'arte suscita. Molti scrittori hanno descritto la bellezza, il fascino del pugilato. (...). E ci sono rimasti dei ritratti dei pugili professionisti del XVIII e XIX secolo. I famosi Figg, Corbett, Cribb combattevano senza
guanti e combattevano magistralmente, con tenacia ed onore - molto più spesso fino al completo sfinimento, più che fino al knock-out.

Né fu un senso di banale umanità che portò alla comparsa dei guantoni da boxe verso la metà del secolo scorso, piuttosto il desiderio di proteggere il pugno, che altrimenti poteva troppo facilmente fratturarsi nel corso di un incontro della durata di un paio d'ore. Tutti loro sono da tempo scesi dal ring - questi grandi pugili leggendari - facendo vincere ai loro sostenitori un bel po' di sterline.

Vissero fino a tarda età e di sera, nelle taverne, davanti a una pinta di birra, raccontarono con orgoglio le loro passate imprese. Furono seguiti da altri, i maestri dei pugili di oggi: il massiccio Sullivan, Burns, che assomigliava a un dandy londinese, e Jeffries, il figlio di un maniscalco - «la speranza bianca», come venne chiamato, da cui si comprende
come i pugili neri stessero già diventando imbattibili.

Chi sperò che Jeffries avrebbe battuto Johnson, il gigante nero, perse i suoi soldi. Le due razze seguirono da vicino questo incontro, ma nonostante la furiosa ostilità tra il gruppo dei bianchi e quello dei neri (l'incontro si svolse venticinque o più anni fa), non fu infranta una sola regola del pugilato, per quanto Jeffries, ad ogni colpo che portava, continuasse a ripetere: «Yellow dog... yellow dog».

Alla fine, dopo un lungo, splendido combattimento, l'enorme pugile nero colpì il suo avversario così forte che Jeffries volò all'indietro fuori dal tappeto, oltre le corde del ring e, si dice, «si addormentò». (...). Ho avuto la fortuna di vedere Smith, e Bombardier Wells,
e Goddard, e Wilde, e Beckett, e il miracoloso Carpentier che sconfisse Beckett.

Quel combattimento, che fece vincere cinquemila sterline al vincitore, e tremila sterline allo sfidante, durò esattamente 56 secondi, tanto che chi aveva pagato venti sterline per sedersi ebbe solo il tempo di accendersi una sigaretta e quando alzò gli occhi al ring Beckett giaceva già al tappeto nella commovente posa di un bambino che dorme.
Voglio subito dire che in un colpo di quel genere, che comporta un istantaneo black-out, non c'è nulla di grave. Al contrario.

L'ho sperimentato io stesso, e posso testimoniare che quel sonno è piuttosto piacevole. Proprio sulla punta del mento c'è un osso, come quello del gosettimana, mito che in Inghilterra viene chiamato "funny bone", e in Germania "osso musicale". Come tutti sanno, sbattendo forte il gomito si sente immediatamente una lieve scossa nella mano e un momentaneo intorpidimento dei muscoli. La stessa cosa avviene se si viene colpiti molto forte sulla punta del mento.

Non c'è dolore. Solo lo scampanellìo di un lieve ronzio e poi un istantaneo e piacevole sonno (il cosiddetto "knock-out"), che dura dai dieci secondi alla mezz'ora. Un pugno al plesso solare è meno piacevole, ma un buon pugile sa come tendere il suo addome, così da non batter ciglio nemmeno se un cavallo gli desse un calcio alla bocca dello stomaco.
Ho visto Carpentier questa martedì sera.

Faceva da allenatore al peso massimo Paolino e sembrava che gli spettatori non riconoscessero subito il recente campione del mondo in quel biondino dall'aria modesta. La sua gloria oggi si è offuscata. Dicono che dopo il suo terribile combattimento con Dempsey singhiozzasse come una donna.

Paolino si è presentato sul ring per primo e, come di consueto, si è seduto sullo sgabello nell'angolo. Enorme, con una testa quadrata e scura, indossava uno splendido accappatoio che gli arrivava alle caviglie: il basco sembrava un idolo orientale. Solo il ring era illuminato e, nel cono bianco della luce che calava da sopra, la piattaforma sembrava d'argento.

Questo cubo argentato - inserito in mezzo a un gigantesco ovale oscuro in cui le dense file di innumerevoli facce umane richiamavano alla mente dei chicchi di granturco
maturo sparsi su uno sfondo nero - questo cubo d'argento non sembrava illuminato dall'elettricità, ma dalla forza concentrata di tutti gli sguardi che dal buio lo fissavano.

E quando l'avversario del basco, il campione tedesco Breitensträter, è arrivato sul ring, biondo, indossando un accappatoio color grigio-topo (e per qualche ragione dei pantaloni grigi, che si è subito tolto) quell'enorme massa oscura ha tremato con un ruggito di gioia. Il ruggito non si è spento quando i fotografi, saltando sul bordo del ring, hanno puntato le loro «monkey-boxes» (così le chiamava il mio vicino tedesco) sui pugili, sull'arbitro, sui secondi, né quando i campioni «si sono infilati i loro guantoni da boxe».

E quando i due contendenti hanno fatto scivolare l'accappatoio (non«vellutate pellicce») dalle loro spalle possenti e si sono lanciati l'uno contro l'altro nel bianco scintillante del ring, un leggero gemito ha attraversato quell'abisso oscuro, quelle file di chicchi di mais e le vaghe tribune superiori - perché tutti hanno visto che il basco era molto più grosso e massiccio del loro favorito.

Breitensträter si è lanciato per primo all'attacco, trasformando quel gemito in un rombo estatico, ma Paolino, con la testa tra le spalle, gli ha risposto con dei ganci corti da sotto e già dal primo minuto o quasi la faccia del tedesco scintillava di sangue.
Ad ogni colpo che Breitensträter subiva, il mio vicino faceva un fischio aspirato come se quei colpi li prendesse lui - e tutta la massa oscura, tutte le gradinate emettevano una sorta di enorme, soprannaturale, rauco lamento.

Al terzo round, si è fatto evidente che il tedesco si era indebolito, che i suoi pugni non potevano tener lontana quella montagna arancione protesa in avanti che avanzava verso di lui. Ha combattuto, tuttavia, con straordinario coraggio, cercando di rimediare, con la sua velocità, al maggior peso, circa sette chili, del basco. Intorno al cubo luminoso, sul quale i pugili danzavano mentre l'arbitro serpeggiava tra di loro, la massa oscura si è raggelata e nel silenzio il guantone, lucido di sudore, ha colpito con vigore il corpo nudo.

All'inizio del settimo round, Breitensträter è caduto, ma dopo cinque-sei secondi, arrancando in avanti come un cavallo sul ghiaccio stradale, si è rialzato. Il basco si è gettato subito su di lui, sapendo che in queste situazioni devi agire in modo rapido e risoluto, mettendo nei tuoi pugni tutta la tua forza, perché a volte un colpo che punzecchia ma non è deciso, invece di finire il tuo avversario indebolito, lo rianima, lo risveglia.

Il tedesco ha schivato, poi si è aggrappato al basco, cercando di guadagnare tempo, di arrivare fino alla fine del round. E quando è andato nuovamente al tappeto, il gong è stato la sua salvezza: all'ottavo secondo, si è alzato con grande difficoltà e si è trascinato fino al suo sgabello. Per una sorta di miracolo, era sopravvissuto all'ottavo round, a un fragore crescente di applausi. Ma all'inizio del nono round, Paolino, colpendolo sotto la mascella, lo ha toccato proprio dove voleva. Breitensträter è crollato. Infuriata e scontenta, la massa oscura ha ruggito. Breitensträter giaceva acciambellato come un brezel.

L'arbitro ha contato i secondi fatali, ma lui non si è rialzato. Così, il match è giunto al termine e quando siamo usciti tutti per strada, nell'azzurro ghiacciato di una notte nevosa, ho avuto la certezza che nel più fiacco padre di famiglia, nella gioventù più modesta, nelle anime e nei muscoli di tutta la folla, che all'indomani, al mattino presto, si sarebbe dispersa negli uffici, nei negozi, nelle fabbriche, ci sarebbe stato lo stesso bel sentimento, per il quale era valsa la pena di far combattere due grandi pugili: un sentimento intrepido, di forza ardente, di vitalità, di virilità, ispirato dal gioco del pugilato. E questo bel sentimento è forse più prezioso e più puro di ciò che molti chiamano i "piaceri elevati".

 

 

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