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Marco Giusti per Dagospia
C'è tutto. La candela nel culo di Leonardo Di Caprio (è una pratica erotica), il lancio del nano con annessa discussione teorica su cosa si può fare coi nani, la sniffata profonda nel didietro di una signorina (tal Natalie Bensel), due seghe al giorno ("non è un consiglio, è una prescrizione"), Bo Diddley, Elmore James, Howling Wolf e John Lee Hooker, la parola Fuck pronunciata 569 volte, la riabilitazione di Gordon Gekko, mille lezioni su come fare soldi imbrogliando il prossimo,
una lunga chiacchiera fra padre e figlio sulla vagina depilata delle donne ("Sono nato troppo presto", si lamenta il padre), "Gloria" di Umberto Tozzi, Jonah Hill che si masturba di fronte a tutti alla vista della bellissima Margot Robbie, i Devo, Cypress Hill, Ahmad Jamal e perfino "Mrs Robinson" eseguita dai Lemonheads, Jean Dujardin, il protagonista di "The Artist", nei panni di un losco banchiere svizzero che non resiste alla bella spogliarellista slava Chantal, Katarina Cas,
un cameo di Spike Jonze, la coca che fa su Di Caprio lo stesso effetto degli spinaci su Braccio di Ferro, la glorificazione del Quaaludes come droga della classe dirigente americana, il pranzo con Matthew McConaughey che in cinque minuti ci spiega cos'è Wall Street e cos'è l'America bevendo un Martini.
E perfino la benedizione di Bret Easton Ellis su twitter ("è così ovvio che sia il miglior film del 2013 che non si capisce perché non vinca tutti i premi"). Alla fine ne avremmo potute vedere altre dieci ore di un film così anche se per esaltarci già bastano i primi dieci minuti. Perché "The Wolf of Wall Street" di Martin Scorsese, scritto dal Terence Winter di "The Sopranos" e "Boardwalk Empire" e tratto dall'autobiografia di Jordan Belfort, non è solo un viaggio istruttivo nei nostri ultimi trent'anni e su come si sia arrivati a questa lunga impossibile crisi economica, ma è uno dei più grandi film di Scorsese, da paragonare solo a capolavori come "Casino" e "Good Fellas".
E Leonardo Di Caprio è incredibile nei panni di questo mostro del tardo '900 che in mezzo a una tempesta urla "Non morirò sobrio!" e manda il suo socio Jonah Hill a recuperare le pasticche di Quaaludes per morire fatto. Come in "Casino" Scorsese e la sua montatrice di sempre, Thelma Schoonmaker, hanno dovuto comprimere un film ben più lungo a una durata "ragionevole", 180 minuti, ma gli hanno dato solo più ritmo senza perdere un attimo di logica di racconto, né dell'impressionante libertà anni '70 che deborda da ogni sequenza.
Perché Scorsese e Di Caprio hanno preferito aspettare cinque anni per poterlo girare in totale libertà , piuttosto che rispettare le regole e le censure delle major. Erano anni che non si vedeva qualcosa di simile. Anche perché, come in "Casino" e come in "Good Fellas", Scorsese racconta la vita del suo eroe, Jordan Belfort, il lupo di Wall Street, malato di sesso e di droga, che a 26 anni guadagna 46 milioni di dollari ("mi ha fatto incazzare, ne mancavano solo tre e avrei ottenuto la media di un milione a settimana"), come l'epopea di un eroe mitologico.
Non c'è nessuno sguardo moralistico, non c'è nessun lieto fine che debba spiegarci qualcosa. Il Jordan Belfort di Di Caprio e Scorsese è un gangster, un mostro, un lupo, ma soprattutto l'eroe di un'epopea che lo vede protagonista e che lo ha prodotto. Questo è il cinema. Come ai tempi di James Cagney e Humphrey Bogart. Un degenerato che sa di essere degenerato e non ha nessuna intenzione di smettere. Perché da una parte c'è la sua vita e dall'altra la vita normale. E non può tornare indietro.
Ovvio che il mondo della Borsa e qualche critico si sia risentito. Come è ovvio che varie nazioni abbiano massacrato in censura il film e altre non vogliano proprio distribuirlo. Ma Scorsese, e noi spettatori, non possiamo che essere sempre dalla parte di Jordan, che ti trasmette un'euforia da tardi anni '80, vuota e meravigliosa. Tutti i personaggi che girano attorno a lui, da Donnie, un grande Jonah Hill, che gli fa da socio di lavoro e di sniffate, all'agente dell'FBI che gli dà la caccia sentono questo fascino. Come se fosse il fascino di un'epoca.
Jordan non è l'odioso figlio di ricchi altrettanto odiosi. Il padre, Max, un grande Rob Reiner che torna al cinema dopo dieci anni di assenza, è un brav'uomo, che vuole solo guardarsi in pace i suoi telefilm e sa che il figlio vive in un'altra dimensione. Per vivere in quella dimensione di ricchezza e di follia, Jordan deve seguire le regole di Mark Hanna, pensare solo al proprio guadagno e aiutarsi col sesso e la droga. Diventarne schiavo.
Anche se, a differenza dei tanti film sui drogati, qui Scorsese davvero tratta la droga come gli spinaci di Braccio di Ferro in una scena che per Tim Lucas vale quella della siringata di adrenalina a Uma Thurman in "Pulp Fiction". Più che schiavo della droga e del sesso, Jordan vive sesso e droga come parte fondamentale del mondo che ama. Come la violenza per Joe Pesci e Robert De Niro in "Good Fellas" e "Casino".
E nessuno tratta la violenza come Scorsese. Dei cinque film che Di Caprio ha girato con Scorsese, forse questo è il migliore, e lo vediamo far delle cose meravigliose sul set, come quando l'effetto di una droga gli si rivela 90 minuti dopo, e incapace di rialzarsi da terra, deve assolutamente riprendere la macchina, la sua Lamborghini bianca (come Don Johnson in "Miami Vice") e tornare a casa.
E lì Scorsese si inventa uno dei momenti più alti del suo cinema, legato a un flashback che non diciamo per non spoilerare troppo, ma che dimostra la sua capacità di raccontare una storia sorprendendo continuamente lo spettatore. Un po' tutto il film, complicatissimo e scritto benissimo da Terence Winter, che trasferisce al cinema la sua maestria di sceneggiatore di fiction e di creatore di personaggi, è costruito con scene che si incastrano una dentro l'altra e rimandano a flashback o a situazioni che non ci aspettiamo.
Al tempo stesso, ogni personaggio, anche il più piccolo, ha una sua coloritura che ce lo rende interessante e insostituibile. Pensiamo solo alla banda di sfigati che Jordan unisce per aprire la sua società di broker. O alla piccolissima partecipazione di Matthew McConaughey, così forte che ci rimarrà impressa fino alla fine, come la canzoncina che canta per concentrarsi, idea dell'attore, che diventerà l'inno della Stratton Oakmont, la società di Jordan, nella parte finale del film.
Anche le donne, di solite trascurate nei film di Scorsese, ci sembrano qui particolarmente ben descritte, a cominciare dalla travolgente Naomi, l'australiana Margot Robbie, già una star, che in una delle scene clou del film, nella camera della loro bambina, gli aprirà le gambe mostrandosi senza mutande per eccitarlo e cercare di definire i poteri fra i due.
Ma sono favolose anche la vecchia zia Emma, Joanne Ludley, le broker, le amichette, le escort di una notte. In qualche modo, sembrerebbe che il mondo della nuova fiction, dalla quale arrivano Terence Winter, ma anche molti attori del film e lo scenografo Bob Shaw, abbia rinvigorito e ringiovanito Scorsese, che riporta nel cinema la stessa carica libertaria, anti tabù che troviamo in "The Sopranos" e "Boardwalk Empire".
Tanto sesso, tanta droga e tanto nudo si vedono oggi più nelle serie che al cinema. Ma questo fa bene al cinema, come fa bene un ritorno allo schermo anamorfico alla "Good Fellas" del direttore della fotografia Rodrigo Prieto. Certo, alla fine il film appare più una grandissima messa in scena per esaltare Di Caprio che un grande film attuale, ma nemmeno "Good Fellas" e "Casino" erano attuali. Erano solo grande cinema. Come questo.
Inutile dire che è ben difficile trovare quest'anno un film migliore. E non ci domandiamo poi perché in Italia nessuno saprebbe più né scrivere né dirigere un film come questo. In sala dal 23 gennaio.
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