
DAGOREPORT - DELIRIO DI RUMORS E DI COLPI DI SCENA PER LA CONQUISTA DEL LEONE D’ORO DI GENERALI –…
Enrica Brocardo per “Vanity Fair”
Quando cito il nome della persona con la quale ho appuntamento in questo club privato nel centro di Londra, la voce degli addetti alla reception si trasforma all’istante in un
bisbiglio reverenziale. Confesso che anch’io sono intimorita all’idea di incontrare Daphne Guinness.
Nobile, ereditiera, una delle donne più eleganti al mondo, amica di personaggi come Karl Lagerfeld. E ancora: musa, stilista, attrice e, adesso, anche cantante, con un album, Optimist in Black, in uscita il 27 maggio.
Ma quando la vedo arrivare ondeggiando in equilibrio incerto su un paio di plateau alti almeno 12 centimetri e resi ancora più instabili dall’assenza del tacco, il mio atteggiamento cambia. A colpirmi è la perfetta corrispondenza tra la precarietà delle scarpe e la fragilità di chi le indossa. Davanti a me c’è un’affascinante donna di 48 anni pericolosamente in bilico.
Una donna ricchissima – rampolla della famiglia Guinness, quella della birra, per intenderci – che, però, ha visto due tra i suoi più cari amici togliersi la vita: lo stilista inglese Alexander McQueen, trovato morto impiccato nella sua casa
nel 2010, e Isabella Blow, giornalista e talent scout di designer come lo stesso McQueen, che si uccise ingerendo diserbante nel 2007.
Una donna cresciuta tra artisti come Salvador Dalí, ma con una madre mentalmente distante, la francese Suzanne Lisney, morta nel 2005, e un padre affettuoso ma dalla doppia vita: quando aveva 13 anni, Daphne venne a sapere che oltre al fratello maggiore Sebastian (più un fratello e due sorelle, nati dal primo matrimonio di Jonathan Guinness), ne esistevano altri tre, Diana, nata nel 1981, Aster, nell’84, e Thomas, due anni dopo, frutti della relazione del padre con l’amante Susan Taylor.
Una donna innamorata per anni di un uomo, il filosofo Bernard- Henri Lévy, che ha deciso di rimanere sposato con un’altra.
Parla a voce bassissima, il che fa risaltare ancora di più i movimenti del suo viso, una sorta di ammiccare continuo, più a se stessa che a me. In quelle espressioni c’è qualcosa di mascolino che contrasta con l’acconciatura, ricercatissima, e il resto della sua figura.
Ha sempre amato la musica e, da giovane, aveva studiato per diventare soprano. «Alla fine», dice, «mi sono ritrovata, per caso, a fare qualcosa in cui sono brava». David Bowie, tra gli altri, l’ha incoraggiata a continuare a scrivere canzoni e a cantare.
Per finire il disco ci ha messo più di tre anni. Perché così tanto?
«Mio fratello Jasper era morto (ucciso da un cancro nel 2011, a 57anni, ndr) e avevo pensato di registrare una cover di Bob Dylan, per ricordarlo. Ero con un amico in Spagna, a Cadaqués, dove sono cresciuta, stavamo disperdendo le sue ceneri, e a un certo punto abbiamo cominciato a parlare di Pat Donne, uno dei produttori dell’album. “Andiamo in Irlanda a trovarlo”.
daphne guinness david lachapelle sergei polunin
Con Pat ci siamo trovati subito in sintonia e, dopo tre giorni passati a discutere di musica, mi ha messo davanti un microfono: i primi cinque brani che abbiamo registrato sono nati così, in modo molto naturale. Ma, poi, sono dovuta andare alle Hawaii per un servizio fotografico.
E quando sono rientrata a Londra, tutto è diventato più dark. Le canzoni “irlandesi” sono più leggere, quelle che ho scritto dopo risentono dei brutti ricordi legati a questa città. Molti miei amici (Isabella Blow e Alexander McQueen, ndr) sono morti qui».
Ha una voce molto bella, particolare.
«Grazie. Ho detto a Tony Visconti di non “aggiustarla”. Mi piace che a volte l’intonazione sia difettosa. E i testi raccontano sensazioni reali. Cose che mi sono capitate, ma che sono successe anche ad altre persone. Ho cercato di togliere ogni riferimento personale. In tutto l’album c’è solo una frase che mi riguarda direttamente».
In Joke, quando dice: «Definirmi un concetto, penso che sia sospetto». Un riferimento esplicito alla definizione che di lei ha dato Bernard- Henri Lévy.
«Non voglio entrare nel merito. Diciamo che tornava utile per una questione di rima. Comunque, non se l’è presa».
Non solo quella frase, ma tutta la canzone sembra parlare di lui e della vostra relazione. E il ritratto che ne fa non è dei migliori.
«Come tutti gli altri brani, anche quella canzone non parla solo di me. Come le dicevo, quello che ho vissuto io lo hanno vissuto tutti. Ognuno di noi conosce l’amore, ha avuto una relazione che non ha funzionato e ha attraversato momenti difficili».
Non teme che qualcuno possa leggere la sua decisione di uscire con un album come una sorta di competizione a distanza con la moglie di Bernard-Henri Lévy, l’attrice e cantante Arielle Dombasle?
«Competizione? No. C’è spazio per tutti. Ma una delle ragioni per cui c’è voluto tanto tempo è che, una volta finite le canzoni, ho cominciato: “Mettiamo degli archi qui”, “Aggiungiamo un sax”. Tutto pur di continuare a lavorarci. Le mie canzoni sono come bambini. Ho tre figli ed è un po’ come quando per loro è arrivato il momento di andare a scuola. Anche se sai che possono cavarsela da soli, che è giusto lasciarli andare, sei nervosa lo stesso».
Che cosa fanno oggi i suoi figli?
«Il più grande è capo delle ricerche alla rivista New Yorker, scrive articoli, è molto in gamba. Il secondogenito è un artista, suona la chitarra e vive a New Orleans, mentre mia figlia è al terzo anno di Filosofia al Trinity College di Dublino (in ordine: Nicolas, nato nel 1989, Alexis, 3 anni più giovane, e Ines, 20 anni. Nati tutti dal matrimonio con Spyros Niarchos, figlio dell’armatore greco Stavros. I due hanno divorziato nel 1999, ndr)».
Rimpiange di essersi sposata a soli vent’anni?
«No. Oggi il mio ex è il mio miglior amico. Mi sono innamorata di lui proprio come capita a chiunque. E abbiamo tre figli meravigliosi, molto più intelligenti di me, grazie a Dio».
Lei viene da una famiglia...
«Stramba».
Non era l’aggettivo che avevo in mente. Ma, in effetti, ha parlato di
esperienze estreme durante la sua infanzia. A che cosa si riferiva?
«Da bambina ho avuto un sacco di incontri ravvicinati con rapimenti, morti, violenza. Ha mai visto il film Savage Grace (del 2007, con Julianne Moore ed Eddie Redmayne, è basato su una storia vera,ndr), su Tony Baekeland, il tizio che uccise sua madre?».
No.
«Be’, poco prima aveva provato ad ammazzare me. Mi ha tenuta in ostaggio con un coltello alla gola per otto ore. Mia madre era la migliore amica di sua madre (Barbara Daly Baekeland, fu accoltellata a morte dal figlio il 17 novembre 1972, ndr). E questo è solo un
episodio. Cose del genere capitavano regolarmente. Mio padre e la mia adorabile famiglia irlandese erano una roccia alla quale aggrapparmi. Con mio papà discutevo di tutto, da Hegel a come si costruisce un orologio. Attraverso le “tempeste”, ho
potuto contare su di lui».
E sua madre? Avevate un rapporto molto stretto, vero?
«Era un incredibile mix, in sostanza francese, ma in Spagna si sentiva a casa, l’inglese era la sua seconda lingua. Una donna molto divertente».
Ma, mi sembra di intuire, anche una sorta di mistero per lei.
«La amavo molto e so che lei amava molto me. Era affascinante, una bravissima pittrice. Salvador Dalí la considerava la sua allieva più dotata. Vivevamo a Cadaqués, una colonia di artisti. Marcel Duchamp era un grande amico di mia madre. E anche Man Ray. Era un piccolo villaggio, a volte pieno di tensioni, però, con gli hippy e i catalani che non andavano d’accordo con gli spagnoli.
I “drammi” erano all’ordine del giorno. Da bambina desideravo solo sedere sulla cima della montagna e osservare la situazione da lontano. Era più semplice che farne parte.
Dalí aveva alcuni puma e il suo manager, Peter Moore, aveva deciso di prenderne uno anche lui. Odiava mia madre, e un giorno glielo tirò addosso. Chi tira un puma contro qualcuno? Eppure, là queste cose succedevano di continuo».
C’è anche questo nelle sue canzoni?
«La musica incapsula tutte le esperienze che ho avuto. Ma come le dicevo prima, non parlo di me. La gente è ossessionata da “io, io, io”. A dirla tutta non mi piace quello che vedo in giro, un mondo di celebrity, aziende, business. Fino a sei mesi fa pensavo che X Factor fosse uno spettacolo porno».
Scusi?
«Non guardo la Tv. Un giorno, un mio amico, che ha 17 anni, mi ha detto di averlo visto. “Non sei troppo giovane per quella roba?”, gli ho chiesto. E lui: “Ma, no, è un talent show”. Così l’ho guardato. È tutta roba commerciale, non c’entra niente con la musica. Tutto ruota intorno alla fama, al denaro. Non dico che il successo e i soldi non siano piacevoli. Ma non è questo il punto».
Qual è?
«Alla fine, il vero obiettivo è l’amore. Ho imparato che da un momento all’altro la vita può riservarti brutte sorprese e che le sole cose che contano sono la tua arte e le persone alle quali vuoi bene».
Quando lo ha capito?
«Dopo essere passata attraverso il lutto per la morte dei miei amici. Si sono suicidati».
Isabella Blow e Alexander McQueen, che considerava parte della famiglia.
Si è mai sentita in qualche modo tradita dalla loro decisione?
«Un po’, forse. Soprattutto, mi sono chiesta se avrei potuto fare di più per evitarlo. Ma ho capito che quella è stata la loro scelta. Mentre la mia è non farla finita. Penso che suicidarsi sia sbagliato. Sto facendo ricerche sul tema e sul perché la gente sia così “disconnessa”. I vicini di casa non si parlano. Io cerco sempre di guardare negli occhi le persone che incontro per strada».
Immagino che per una persona come lei sia facile sentirsi sola.
«Lo è, in effetti. E mi capita di sentirmi ancora più isolata durante quelle serate affollate in cui nessuno in realtà comunica, che quando sono per conto mio a scrivere una canzone. Le relazioni, be’, chiaramente non sono il mio forte. Non che non ami, ma che cosa puoi fare quando non sei ricambiata? Se le persone non si fanno vedere quando hai bisogno? A questo punto mi considero sposata con la mia arte. La mia band è come la mia famiglia».
La sua assistente arriva a dirci che il tempo è finito. Mi rendo conto di non averle chiesto che cosa indossa. «Oh, metto insieme sempre le stesse vecchie cose». Scarpe, leggings e top li ha disegnati lei. «Mentre la giacca è di Alexander».
Le confesso di non capire quasi niente di moda. Mi sorride come se le avessi fatto un regalo. «Io la detesto. I capi firmati dovrebbero avere, cucito sopra, un avviso sui danni che arrecano alla salute, come con i pacchetti di sigarette. Anzi, sa che cosa? Lo scriverò in una canzone».
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