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ONGARO MEMORIES - LO SCRITTORE E 'SOCIO' DI HUGO PRATT: “HO SCRITTO DEI MARI DI CORTO MALTESE MA ORA NON POSSO PIU’ FARLO. LE PAROLE NON SCORRONO PIÙ FLUIDE - LA FALLACI? FUI TRA I POCHI A SALVARMI DALLE SUE GRINFIE: PANAGULIS ERA IL SOLO AD AVERE UNA CERTA INFLUENZA SU DI LEI

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ONGAROONGARO

Antonio Gnoli per “la Repubblica”

 

La cosa più incredibile che gli sia capitata fu di raccontare l’incontro tra una stella del cinema e John Dos Passos, nella provincia del Mato Grosso. Lo scrittore vi si recava perché i viaggi brasiliani diventassero scrittura: «I presume Duglas Fairbanks Jr» o qualcosa del genere disse Dos Passos sotto una pioggia torrenziale, che sbavava fin dentro le scarpe.

 

Così possiamo immaginare Alberto Ongaro, testimone in una vita condotta sotto il segno dell’avventura. Che è sogno, ma anche durezza nel momento in cui esce dalle fantasiose volute mentali e si impantana nella fanga della vita.

 

Quella volta in Africa davanti al Re del Douala, Ongaro poté incontrare il padrone delle acque: «Arrivare in quella landa del Camerun fu un inferno. Il vecchio stregone Bethoté disse due cose: tu sei venuto dalle acque e in un certo senso era vero, visto che sono nato a Venezia e poi che gli Akwa conoscevano l’albero sacro del potere. Quando cade un ramo dall’albero, aggiunse il vecchio, cade uno della famiglia».

 

Come è stata la sua vita da viaggiatore?

PRATT ONGAROPRATT ONGARO

«Ho visitato quasi tutto il visitabile, anche le zone impervie del mondo. Sono stato diversi anni in Argentina con il mio amico Hugo Pratt. Ho fatto il giornalista per l’Europeo: molti reportage è un lungo periodo da corrispondente a Londra. Ho scritto libri e vinto premi, come il Campiello, ho conosciuto persone migliori di me e peggiori.

 

Il mondo di carta e il mondo vero li ho frequentati in eguale misura. Ma alla fine sono tornato sempre qui a Venezia, che sembra aver trasformato il prestigio di un tempo in quello di una banconota falsa. Forse per questo mi sono ritirato al Lido».

 

Cosa è stata la sua Venezia da giovane?

«Un posto abitato dalla mente. Tutto ciò che di bello c’era fuori mi sembrava riconducibile a un sobborgo veneziano. Anche le lingue a volte pareva avessero una cadenza veneziana. Della mia giovinezza ricordo il periodo della Resistenza. Fui arrestato per attività sovversiva, insieme a un cugino, dai fascisti l’11 febbraio 1943».

 

Era vero?

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«Distribuivamo volantini. Fui accusato di essere il capo di un’organizzazione eversiva. Replicai alla polizia fascista che ero uno studente e che non c’entravo nulla con la Resistenza. Cominciarono a colpirmi con un tubo morbido pieno di sabbia. Ben presto circolò la voce che ci avrebbero fucilati. Il cardinal Piazza, patriarca di Venezia, si impegnò a salvarci la vita.

 

Restammo quasi un mese nel carcere, poi venimmo trasferiti al comando delle SS. Il maggiore vedendoci incatenati, chiese cosa avevamo fatto ai tedeschi. Risposi niente. Dissi che amavo la cultura tedesca, ma non avevo nessuna simpatia per la parte militare. Lui stranamente capì. Ci liberò, aggiungendo che se fossimo stati ritrovati con dei volantini antitedeschi ci avrebbe fatto fucilare».

 

E una volta liberato?

«Tornai a casa. Sempre più convinto di dover combattere per scacciare l’invasore. Pensai di andare partigiano in montagna. Mio padre disse: se vai è molto probabile che non mi troverai più. Era già malato. Perciò decisi di restare a Venezia, anche da lì si poteva resistere. Organizzammo dei gruppi studenteschi per combattere il fascismo. C’era anche Franco Basaglia».

 

Lo psichiatra?

«Lui. Ci conoscevamo fin dalle scuole elementari. Aveva un anno più di me. Proveniva da una famiglia ricca. I suoi avevano una bella villa verso il Brenda, dove a volte portava gli amici. Fu una lunga frequentazione che sfociò nell’innamoramento di Franco per mia sorella, Franca Ongaro».

 

Com’era Basaglia?

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«Non sembrava uno studente brillante. Nessuno dei suoi amici immaginava cosa avrebbe fatto nella vita. Mostrava timidezza nel parlare ma, al tempo stesso, aveva un modo bellissimo di ridere. Ricordo che all’università di Padova un giorno mi disse: sai, mi piacerebbe occuparmi dell’acqua. Come dell’acqua, dissi io. Sì, della cosa più elementare che conosca, replicò. Poi si iscrisse a medicina».

 

Sui rapporti con sua sorella, cosa può dire?

«Furono fondamentali per entrambi. Allora avevo una storia con Angela, la sorella di Franco. Fu proprio Angela a dirmi che il fratello si era innamorato di mia sorella. La loro è stata una storia importante. Erano complementari: impulsivo e fantasioso lui, razionale e tenace lei».

 

Come si tradusse questa complementarietà sul piano professionale?

«Franca gli fu vicino per tutto il periodo di Gorizia, quando Basaglia cominciò a mettere in pratica alcune sue intuizioni legate all’attività manicomiale. Franca, che non aveva incarichi ufficiali, curava la parte editoriale. I libri che cominciarono ad essere pubblicati da Einaudi erano il frutto di innumerevoli scambi di idee tra i due.

 

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Alla fine però era Franca che scriveva per poi, di nuovo, sottoporre il lavoro a Basaglia. Fu un continuo confronto. Ogni parola scritta, come ebbe a dire mia sorella, era il frutto di una infinita discussione con lui».

 

Le sembra che il suo ruolo importante sia stato riconosciuto?

«Non spetta a me dirlo. Ma ho l’impressione che in certi casi il suo ruolo nel rapporto con Franco sia stato sottovalutato. Non è raro che persone così finiscano in una specie di evanescenza. Franca non fece mai nulla per apparire. Non amava parlare di sé. Del resto non aveva studiato psichiatria all’università, si era formata giorno dopo giorno nella convinzione di aver scelto la parte e le idee giuste».

 

Aveva anche interessi letterari.

«Parlavamo tantissimo di questo aspetto che, in qualche modo, ci accomunava. Ricordo che alcuni suoi racconti furono illustrati dal nostro amico Hugo Pratt».

 

Come vi conosceste con Pratt?

«Era finita la guerra. Insieme ad altri progettai un giornale che riprendesse le gloriose storie de L’Avventuroso che per me fu una vera scuola di antifascismo».

 

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In che senso?

« Sull’Avventuroso si pubblicavano bellissime storie americane. Storie a fumetti con personaggi favolosi: Mandrake e l’Uomo mascherato, Flash Gordon per citare i più noti. Il periodico era nato nel 1934, in pieno fascismo, ed ebbe un successo clamoroso. Durò un po’ meno di sei anni. Nerbini, l’editore, fu costretto a chiuderlo. Il regime temeva che l’immaginario americano finisse col contagiare le giovani menti dei lettori italiani ».

 

E voi tentaste di ripeterne la formula?

«Provammo con un fumetto che si chiamava L’asso di picche, riproponeva le atmosfere americane. Il protagonista era un agente segreto che combatteva il crimine. Pratt seppe di questo progetto. Era da poco rientrato dall’Etiopia e si presentò con alcune tavole sotto il braccio. Compresi immediatamente che dietro il segno ancora immaturo si nascondeva un talento. E poi mi colpì il suo inglese».

 

Perché la colpì?

«Mi sembrò insolito che un ragazzo lo parlasse così bene. Hugo, in realtà, era stato chiuso in un campo di concentramento inglese in Etiopia con tutta la famiglia. Credo che il padre fosse un militare di carriera e questo spiega perché fossero finiti in Africa. Insomma, dopo aver visto i suoi lavori cominciò la collaborazione.

 

Hugo disegnava e io scrivevo le sceneggiature. Poi accadde che un editore argentino notando la nostra rivista ci fece una proposta molto vantaggiosa. Eravamo giovani, con il mito del Sudamerica. Ci imbarcammo. Anzi Hugo, insieme a Mario Faustinelli, viaggiò per nave. Avevo ancora da assolvere a certe incombenze universitarie perciò partii successivamente».

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Quando andò in Argentina?

«Arrivai verso la fine del 1950. Raggiunsi Hugo a Buenos Aires e vidi che si era installato in un elegantissimo Barrio. Notai che aveva un po’ cambiato umore. Più disinvolto, solare, spiritoso. E questo nonostante avesse a lungo litigato con un aiuto disegnatore che evidentemente aveva idee diverse dalle sue».

 

Chi era l’editore che vi aveva ingaggiati?

«L’Editorial Abril ci contattò. La casa editrice fu fondata da un gruppo di ebrei italiani che ripararono in Argentina dopo le leggi razziali del 1938. E la loro attività cominciò proprio stampando fumetti e libri per bambini.

 

Uno dei soci, Cesare Civita, aveva svolto negli anni Trenta lavoro editoriale a Milano presso la Rizzoli e la Mondadori. Aveva un’esperienza anche nel settore dei fumetti di Walt Disney. E fu Civita a suggerire a Matilde Finzi di contattarci».

 

La Finzi chi era?

«Era stata segretaria alla Mondadori e in seguito aveva messo in piedi con la sorella una piccola agenzia letteraria. Fu lei a cercarci. Venne a Venezia. Si presentò tutta elegante con una vistosa rosa sul vestito. Hugo guardandola le disse: come fa ad annaffiarla? Lei ignorò l’ironia. Venne al punto. Formulando una proposta economica che non si poteva rifiutare».

 

Perché tanta generosità?

«Perché Civita si accorse della qualità del nostro lavoro e in particolare di Hugo e poi in quel momento l’Argentina aveva scoperto la potenza seduttiva del fumetto. Quegli anni furono la sua età d’oro. Restai sette anni in Argentina. Pratt almeno dodici. Che dire? Per noi fu come trovare una sintesi tra il gaucho e il gondoliere. Tra l’epica della pampa e i canali di Venezia, città che non avevo dimenticato».

FALLACI PANAGULISFALLACI PANAGULIS

 

Perché tornò?

«Per nostalgia? Perché magari mi ero rotto, perché le cose a un certo punto cambiano? Non lo so. Mi offrirono un posto di giornalista all’Europeo. I miei amici erano Roberto Leydi, Gianfranco Vené e c’era la Fallaci. Devo dire che fui tra i pochi a salvarmi dalle sue grinfie. Anzi una sera venne a cena da me insieme a Panagulis, il suo compagno».

 

Come andò l’incontro?

«Tutto sommato bene. Panagulis era molto simpatico. Compensava il protagonismo di Oriana. La quale a un certo punto cominciò a sbraitare, non ricordo più contro chi. Ma questa era la cosa meno importante. Panagulis prese a battere con la forchetta sul bicchiere. Richiamò la mia attenzione e mi disse: cosa mi dai se la faccio tacere? Credo fosse il solo ad avere influenza su di lei».

 

Non era una donna facile.

«Non lo era. Ma quasi nessuno dopo aver superato una certa linea di notorietà lo è. Neppure Hugo era facile».

Lei ha scritto un romanzo con lui protagonista.

«Uscì nel 1970, Un romanzo d’avventura era il titolo. Glielo spedii con questa dedica: “Caro Nessuno, non ti riconoscerai negli avvenimenti, ma sono sicuro che ti riconoscerai in altre cose” ».

ORIANA FALLACI CON ALEKOS PANAGULISORIANA FALLACI CON ALEKOS PANAGULIS

 

So che non rimase contento.

«Era incerto su come prenderlo. Alla fine prevalse in lui una specie di rancore metafisico. Forse per aver accennato al suo disordinato bagaglio sentimentale. Aveva come un senso di struggimento ogni volta che evocava qualche donna perduta o lasciata. O forse perché a volte lo ricordavo immobile come un bandolero, con la matita riversa sul tavolo, senza sapere se fosse stato più capace di riprodurre la magia del suo disegno. Però ci siamo voluti bene. E quando è morto è stato come se il ramo più importante del nostro albero si fosse spezzato».

 

Continua a scrivere?

«Ho scritto venti libri. Ma adesso non posso più scrivere. Me ne dolgo. La verità è che le parole non scorrono più fluide. Vedo i segni come una foresta che si muove, che ondeggia. È finita. A un certo punto finiscono le cose.

 

PRATT CORTO MALTESEPRATT CORTO MALTESE

Ho avuto una bella vita. Ho avuto tanto. Sono stato un uomo fortunato. Vivo con una moglie più giovane che ancora mi guida nei meandri del mio cervello. A questo proposito, in uno dei miei tanti viaggi, incontrai Marìa Sabina, una curandera messicana: “Io so che nel cervello di ogni uomo ci sono i sentieri che portano al mistero della vita”, disse».

 

Perché le torna in mente?

«È come un flash. Il ricordo di una donna straordinaria. Una mistica. Fu Robert Gordon Wasson, un etno-botanico, a raccontarla per la prima volta. Maria gli permise di assistere ai suoi rituali con i “funghi magici”. In seguito anch’io la vidi in azione.

 

Ed ebbi la sensazione che questa donna, che cercarono di ammazzare e che non si era mai mossa da un luogo sperduto nel sud del Messico, avesse scoperto il segreto dell’universo. Perfino John Lennon e Bob Dylan vollero conoscerla».

 

corto maltese hugo pratt corto maltese hugo pratt

È buffo che questa nostra chiacchierata finisca con una nota lisergica attorno a una veggente.

«Anche quello è un tributo allo spirito. Non le pare? Qui dal Lido, come esperienza onirica, al massimo posso immaginare il cinema. Il divismo estivo. Ma non mi batte più il cuore. Sento il fruscio di certi passi che si allontanano. Forse è venuto il momento di distrarsi».