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T'AMO PIO BOWIE - IL RE DEI FOTOGRAFI DELLE ROCKSTAR MICK ROCK CELEBRA CON UN LIBRO IMPERDIBILE DAVID BOWIE: “È COME DORIAN GRAY DEVE AVER FATTO UN PATTO CON QUALCHE FORZA OSCURA. OGGI VIVE RECLUSO, SEMBRA GRETA GARBO”

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Angelo Aquaro per “la Repubblica”

L’uomo che inventò David Bowie accarezza il librone che raccoglie le foto che segnarono un’epoca e intona una di quelle risate che i gentleman inglesi abbozzano solo nei film: «Oh Oh Oh». Poi scorge uno di quei ritratti meravigliosi in cui Mr. Bowie non sembra né uomo né donna.

 

Le manca?

«Mi mancano tanti amici: vivi e morti. Mi manca Lou Reed».

 

Ma possibile? Bowie scomparso perfino per lei?

«Fa una vita da recluso. Ormai lavoriamo solo via mail. L’ultimo a fotografarlo sono stato sempre io: 2002. Da allora si fida solo del suo assistente: le foto le fa tutte quello lì. Ma poi perché dovrei cercarlo a tutti i costi? Quello che è stato fra di noi, è stato».

 

Perché, scusi, adesso? Che cosa è diventato adesso David Bowie?

«Adesso? Adesso David è come Greta Garbo...».

 

No: neppure il Rock può far miracoli. Il Rock inteso come Mick, Mick Rock, il fotografo che aveva già nel nome (no che non è uno pseudonimo) il suo destino, il dottore in letteratura inglese all’Università di Cambridge che invece di Byron & Shelley finì per insegnare l’arte di Bowie & Syd — inteso come Barrett: e poi Lou Reed, Iggy Pop, Freddie Mercury.

 

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A sessantasette anni, quattro bypass e un trapianto di rene, tutto di denim vestito, qui nella sede di Taschen, nel cuore di Soho, neppure “il” Rock può fare il miracolo di alzare il velo sul divo (rock) più recluso del mondo. Per carità. L’esile Duca Bianco — il “Thin White Duke”, come Bowie battezzò quarant’anni fa, 1976, uno dei suoi travestimenti — è più attivo che mai. Il libro- celebration di Mick Rock,The Rise of David Bowie, 1972- 1973, è solo uno dei tanti progetti.

 

Tra pochi giorni, 19 novembre, esce Blackstar: è il singolo dell’album — il numero 25 — che arriverà in regalo il giorno del suo compleanno, 8 gennaio, ma anche la colonna sonora composta per

 

The Last Panthers, l’ultima mini-serie di Sky. E la sera prima, 18 novembre, a New York apre Lazarus, lo spettacolo di Broadway annunciato come un sequel de L’uomo che cadde sulla terra e già tutto esaurito. Il solito reclusissimo Bowie — che l’ha scritto insieme a Enda Walsh — ha imposto il segreto assoluto perfino al New York Times, che è riuscito però a impossessarsi di due righe di trama.

 

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E in questo gioco di specchi e rivisitazioni, nell’ennesima danza kabuki accennata da Bowie — grande ammiratore del teatro giapponese, vera scuola di dissimulazione — che cosa ci racconta Lazarus? Riprende la storia di Thomas Newton, cioè il protagonista del film di Nicolas Roeg che sempre quarant’anni fa fu interpretato da Bowie, concentrata adesso “sul periodo in cui Newton rimane sulla Terra, uomo incapace di morire, la sua testa imbevuta di gin a basso costo, perseguitato da un vecchio amore. Finché non compare un’altra anima persa che potrebbe liberarlo”.

 

Anime perse o no, in un paio di foto del libro Bowie ha davvero le mani giunte: è così religioso?

«Ha le mani giunte, sì, è in ginocchio, ma tra le dita ha una sigaretta: si prega così?».

 

Avrebbe mai immaginato che sarebbe diventato il più grande?

«Ma cosa vuole che mi sarei immaginato allora: avete presente il 1972? Io mi chiedevo piuttosto quando tutto quello sarebbe finito: il rock, il fumo, la cocaina, le ragazze — chiamiamoli i frenge benefit di quella vita senza capo né coda».

 

Anche Bowie era così?

«In testa aveva una cosa sola: farcela. La prima volta che lo vidi lì alla Birmingham Town Hall c’erano appena quattrocento persone. Ma lui sognava lo stardom: diventare una stella. Ricordate Star? “ I could make it all worthwhile as rock’n’roll star / Potrei dare un senso a tutto diventando una rock’n’roll star”. Aveva ragione».

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Che cosa aveva in più.

«All’inizio erano tutti e tre degli sbandati: David, Lou e Iggy Pop. A chi fregò di Hunky Dory che oggi è un classico di Bowie? Lou lasciò i Velvet e non sapeva dove andare a sbattere. Gli Stooges di Iggy fecero Raw Power, 1973: e tre mesi dopo il disco era sulle bancarelle da 50 cents».

 

David fu il primo a diventare una star.

«Col trucco di Space Oddity. Perché poi un trucco aiuta sempre».

 

Che cosa vuol dire?

«È il 1969 e si inventa questa storia di fantascienza — proprio mentre c’è la moda di 2001 Odissea nello spazio. Capisce che funziona e due dischi e tre anni dopo si inventa Ziggy Stardust. E cambia tutto».

 

Ecco: il cambiamento. David si trasforma in un altro personaggio ed ha successo. Perfino Lou Reed si trasforma e sforna un album che si chiama appunto “Transformer”. Diverrà mitica anche la foto di copertina: scattata da lei.

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«Ma il cambiamento è l’essenza di David. Da Ziggy in poi ha l’intuzione del trasformismo. Del cambio di personalità. Coglie uno spirito del tempo. Andare oltre l’umano: la simbologia spaziale. Oltre l’uomo e la donna: l’indefinito sessuale».

 

C’è la sua foto famosa di David e Lou sul sofa come due fidanzatini: Lou ha le dita laccate...

«...Non si vede ma anche David».

 

Lei ha sempre detto: non è gay.

«Ho sempre detto che l’ho visto con le mani addosso a tante di quelle ragazze. Altri tempi. Dal ‘66 all’84, dalla liberazione sessuale all’Aids, il sesso è tutto, e tutti fanno sesso. Anche dai modi gay eravamo tutti attratti: che eleganza, che stile».

 

Fu sempre David a ispirare Lou per “Transformer”.

«E l’altro grande del terzetto? Prendete Iggy, prima di incontrare David non riusciva ad avere neppure uno straccio di contratto».

 

Lo stesso nome di Iggy viene da Iguana: altro simbolo di trasforrmismo.

«I simboli sono importanti. Io venivo da Cabridge, e non mi sfuggiva l’impatto culturale di questi tre grandi presi singolarmente e come “gruppo”. Il ‘72 cambia tutto: tra il ‘72 e il ‘73. Ziggy, Raw Power, Transformer. È nel ‘72 che muore il rock di Elvis, prima del punk».

 

E adesso?

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«Ho passato una vita a fuggire dai miei fottutissimi anni 70. A uscirne vivo. Ma oggi? A un ragazzino qualsiasi bastano tre minuti per finire su Internet. David, Lou, Iggy: quanto tempo passò prima del successo? Ebbero il tempo di svilupparsi: crescere. Non c’era Mtv, niente cellulari».

 

Anche la musica di David è cambiata?

«Ho ascoltato le ultime cose: è tornato grande. Ecco: anche lui ha avuto il suo momento di sbandamento. Ricordo gli anni 90. Mi diceva: mi criticano perché nei tour mi nascondo dietro ai vecchi successi. Essì che le soffre le critiche. Poi andò al festival di Glastonbury: era il 2000. E fu un trionfo. Tornò e mi disse: mi amano ancora».

 

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Ossessionato dal successo.

«Di più. Il Victoria & Albert Museum lo chiama per quella mostra su di lui che da due anni è sold out. Gli dicono: vogliamo ripercorrere la sua carriera dal 1970 all’84. E lui furioso: la mia carriera non è finita mica nel 1984!».

 

C’è una sua foto bellissima, Bowie di spalle davanti a uno specchio. Quel volto imbellettato nella cornice dello specchio sembra un ritratto fine Ottocento: il ritratto di Dorian Gray.

“Ho sempre pensato che Lou fosse il mio Baudelaire. Lou era dark: New York. David è brillante: la gioia di Londra. Però sì, a ripensarci, è davvero Dorian Gray: se ha continuato a trasformarsi fin qua, deve averlo proprio fatto un dannatissimo patto con qualche specie di forza oscura».

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