RIDERE DEL CINEMA – REGISTI E ATTORI SONO MALEDETTAMENTE PERMALOSI E I CRITICI CHE SI FANNO SCAPPARE QUALCHE BATTUTACCIA FINISCONO SULLA LISTA NERA – EPPURE CI SONO VIGNETTISTI CHE GRAFFIANO E BATTUTE CELEBRI. COME QUESTA: “È UN FILM DOVE NON SUCCEDE NIENTE, MA CI SI ANNOIA LO STESSO”

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Maria Rosa Mancuso per “La Lettura – Il Corriere della Sera

 

«È un film dove non succede niente, ma ci si annoia lo stesso». Fulminante, applicabile a molte pellicole viste ai festival — e non solo ai festival — la battuta vale più di mille recensioni. Inchioda il regista alle sue responsabilità: non aver raccontato una storia, non aver immaginato colpi di scena, non aver cercato in nessun modo di acchiappare l’attenzione dello spettatore. Lo fa in un lampo, con una risata.

sechi, maite bulgari e mariorosa mancusosechi, maite bulgari e mariorosa mancuso

 

Meglio che dover leggere tra le righe di una lunga recensione, decifrando i segnali di sicuro pericolo: «splendida la fotografia», «recitazione intensa», «il paesaggio è a pieno titolo un personaggio», «narrazione non tradizionale». Giri di frase che conducono alla stessa conclusione a cui lo spettatore era già arrivato da solo: il film in questione fa sbadigliare.

 

Battuta fulminante, di autore ignoto. La prima volta l’abbiamo sentita attribuire a una nonna saggia. Poi abbiamo cercato e ricercato nei repertori di citazioni, senza successo: l’autore resta sconosciuto, come capita con le barzellette più popolari. Ha invece una precisa data di nascita, e anche un papà, l’altra frase celebre che stigmatizza la lentezza cinematografica. «Un film dove si vede crescere l’erba» diciamo noi, in un libero adattamento che rende bene l’idea. «Un film dove si vede la pittura asciugare» diceva l’originale. La pronuncia Gene Hackman, poliziotto in Bersaglio mobile di Arthur Penn. E per intero suona: «Ho visto un film di Eric Rohmer, una volta. Era come vedere la pittura asciugare».

 

gene hackmangene hackman

A corollario, la frase con cui un critico americano iniziò la sua recensione di The Good Shepherd – L’ombra del potere , che pure aveva Robert De Niro e Matt Damon nel cast: « Not boring, but tedious »; non noioso, ma barboso.

 

Lo sbadiglio non arriva solo dalle periferie dell’impero cinematografico, anche Hollywood fa la sua parte. «Sarcasmo è l’anagramma di massacro», suggerisce Stefano Bartezzaghi che ha ideato la tre giorni dedicata a Il senso del ridicolo (Livorno, dal 25 al 27 settembre).

 

robert deniro e michelle pfeiffer come bernie e ruth madoff robert deniro e michelle pfeiffer come bernie e ruth madoff

La buccia di banana sul poster sembra escludere subito la «comicità garbata», invenzione recente e tutta italiana. Viene spesso invocata dai registi di certe commedie che a malapena strappano un sorriso, con la complicità di certi recensori che aggiungono «però non è volgare», come se fosse un complimento. Il poveretto scivola sulla buccia di banana, e noi ridiamo: qui comincia l’umorismo. Chi corre in soccorso per fasciargli la testa è miglior samaritano di noi, ma fa un altro mestiere.

 

Non sarà troppo facile — e come qualcuno sostiene, anche un po’ codardo — liquidare con una battuta un film che è costato al regista mesi di lavoro? Lo suggerisce l’angioletto sulla nostra spalla, mentre il diavoletto sull’altra spalla fa presente che al cinema lo spettatore paga il biglietto. E che certi difetti clamorosi sono presenti già in sceneggiatura, molto prima di andare sul set (e spesso molto prima di trovare i finanziamenti).

 

La satira funziona come con le parodie: anche le più feroci sono in fondo un omaggio, per farle bene servono tempo e intelligenza. Chi per la prima volta, uscendo dal cinema dove si proiettava un melodramma, disse «Mi sono divertito, ho pianto tanto», aveva precisamente identificato il genere cinematografico e i suoi piaceri. Parker Tyler, il critico americano che a proposito di Il mio corpo ti scalderà (di Howard Hughes, anno 1943) scrisse che i due protagonisti «Vanno a letto con la stessa donna, ma amano lo stesso cavallo» aveva perfettamente colto le sfumature gay di certi western. Poi rese esplicite da un film come I segreti di Brokeback Mountain , e soprattutto dai finti trailer che rimontavano scene celebri, rubate a Star Wars o a Shining (ma la lista dei saccheggiati sarebbe lunghissima), cogliendo sguardi di intesa tra maschi.

Umberto Eco e Stefano Bartezzaghi Umberto Eco e Stefano Bartezzaghi

 

Nel luglio del 2007, a poche ore l’uno dall’altro, i venerati maestri Ingmar Bergman e Michelangelo Antonioni entrarono nel paradiso dei registi. Così li immagina Peet Gelderbloom, nella prima striscia del suo fumetto Directorama (allora era solo su internet, ora esiste anche il libro). Paradiso, esterno giorno, i due registi con le ali da angioletto si incontrano. «Ti ammiro molto», dice Antonioni, e tra sé pensa «Musone pieno di pretese». «Ti ammiro molto», risponde Bergman, e tra sé pensa: «Ciarlatano e venditore di fumo».

 

Stefano Bartezzaghi Stefano Bartezzaghi

Bastò per vendicare le sofferenze da cineclub patite in gioventù, e ce n’era anche per i registi più moderni. David Lynch viene disegnato mentre dirige con la benda sugli occhi: «Non sono io che devo vedere il film, è il film che deve vedere me». Ecco il modello base del cinema artistico, che sdegna la trama perché rimanda al bacucco «cinema di papà» (copyright la Nouvelle Vague francese: ma ogni generazione ha i suoi genitori da uccidere e il suo sperimentalismo da reinventare): «Legnetto trascinato dalla corrente, vecchio che cammina sulla spiaggia e osserva il mare, branco di cani, paperelle, stagno con ranocchie gracidanti».

 

Aveva fatto un gioco simile Umberto Eco in Diario Minimo (era il 1963, ancora si occupava di pop, non di politica). «Fatevi da voi il vostro film», applicato a Michelangelo Antonioni, lasciava scegliere tra «una spiaggia deserta», «una città deserta», «una piazza deserta». Quel che Rodolfo Sonego, sceneggiatore di Alberto Sordi, chiamava «Il cinema del carro attrezzi», pensando ai mezzi necessari per sgombrare il set. Continua a farci ridere sul cinema Stefano Disegni, nell’ultima pagina di «Ciak» e nel suo libro L’ammazzafilm (Gallucci).

 

blow upblow up

E ci sono le «Recinzioni» in romanesco del critico mascherato Johnny Palomba. Dobbiamo ai Manetti Bros le parodie televisive dei film artistici, immancabilmente vincitori del premio «Ernia di Marmo» al Noia Film Festival. A Checco Zalone, un indimenticabile set cinematografico dove si gira un film che non vorremmo vedere neanche sotto tortura.

 

Pescando qua e là si trovano meraviglie, ognuno ha le sue preferite. Come ognuno ha la sua lista personale di film da seppellire sotto una risata. Bello sarebbe ridere anche delle battute — purché riuscite, questa è la sola misura dell’umorismo — a danno dei film che amiamo. Se no finisce come la satira politica made in Italy: ridiamo solo quando le battute colpiscono i nemici. Possiamo prendere come antenati gli spettatori che — ancora memori dell’avanspettacolo — commentavano le scene con frizzi e lazzi pronunciati ad alta voce, con effetto Gialappa’s. I pronipoti sono attivi sui social network: certi tweet uccidono più della penna.

 

antonioni vittiantonioni vitti

Ovvio che i critici, così facendo e così punzecchiando, risultano anche meno simpatici del solito. I registi contrattaccano. Mettono i nomi dei recensori non compiacenti sulle pietre tombali. Tirano fuori classiche stroncature di film poi entrati nella storia del cinema (ne raccoglie parecchie lo storico del cinema Giampiero Brunetta, in Spari nel buio ). In materia di svarioni — volendo — fa da padre nobilissimo Samuel Johnson. Critico letterario, poeta, saggista del Settecento, dichiarò al mondo: «Shakespeare sulla scena perde tutto».

 

ingmar bergmaningmar bergman

Vale per le battute sui film (e sugli attori, e sui registi) quel che Karl Kraus — scrittore della vecchia Vienna recentemente riportato alla ribalta dal suo fan Jonathan Franzen — diceva degli aforismi: «O sono una mezza verità, o sono una verità e mezza». Nel primo caso, servono per farsi una risata, e già basterebbe a giustificarne l’esistenza. Nel secondo caso, sfoderano una genialità e una brillantezza che i recensori possono solo invidiare.