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VELTRONI NEL PALLONE! - L’EX SEGRETARIO DEL PD INAUGURA CON UN’INTERVISTA A CAPELLO LA COLLABORAZIONE CON IL ''CORRIERE DELLO SPORT'' - L’EX TECNICO GIALLOROSSO: “HO VISTO NASCERE FORZA ITALIA MA CON ME IL CAV NON HA MAI FATTO LA FORMAZIONE”

1. VELTRONI SCEGLIE DI TORNARE AL GIORNALISMO, SCRIVERÀ DI SPORT

Da il “Corriere della Sera”

 

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È un ritorno al giornalismo, ma a quello sportivo: Walter Veltroni — ex sindaco di Roma e segretario di Ds e Pd, già direttore dell’ Unità — ha cominciato a collaborare per un ciclo di interviste a grandi sportivi sul Corriere dello Sport . Per la prima, sull’edizione di ieri, giorno di Roma-Juventus, ha scelto Fabio Capello: «Per cominciare questo ciclo di interviste, mi è sembrato che la persona giusta fosse Fabio Capello — ha scritto —.

 

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Perché è stato un grande giocatore, con quel portamento elegante e un po’ altero, e poi un allenatore vincente. E, soprattutto, perché la sua vita sportiva si è dipanata, in ambedue i ruoli, sull’asse Roma-Torino». Appassionato di sport, Veltroni era direttore quando con l’ Unità uscirono le ristampe degli album di figurine dei calciatori Panini. Recentemente, oltre che a scrivere libri, si è dedicato anche al cinema (l’ultimo lavoro, I bambini sanno , è del 2015). 

 

2. CAPELLO: «JUVE DI FERRO, MA HO LASCIATO IL CUORE A ROMA»

Walter Veltroni per il “Corriere dello Sport”

 

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Per cominciare questo ciclo di interviste, oggi, mi è sembrato che la persona giusta fosse Fabio Capello. Perché è stato un grande giocatore, con quel portamento elegante e un po’ altero, e poi un allenatore vincente. E, soprattutto, perché la sua vita sportiva si è dipanata, in ambedue i ruoli, sull’asse Roma-Torino.

 

La sua storia e quella della Roma e della Juventus sono legate da una serie infinita di fili invisibili. A cominciare dal suo primo gol in campionato.

«Sì, era il ‘67, mi trovai davanti alla porta. Quando il pallone arrivò io sentii una grande responsabilità. Avevo davanti Anzolin e dovevo calciare nella porta della Juventus. Ero da poco arrivato alla Roma e non potevo sbagliare. Non sbagliai. È così cominciò questa storia infinita. Avevo ventuno anni e quel giorno vincemmo a Torino. Non era mica cosa di tutti i giorni, allora».

Sì, erano ancora gli anni di “Forza Roma, forza lupi so’ finiti i tempi cupi”...

«Quella di quegli anni veniva chiamata la Rometta. Ma non so se fosse giusta questa definizione. Io arrivai a Roma e mi fece da cicerone Walter Crociani che allora faceva la campagna acquisti. Mi accompagnò da Evangelisti, che era stato messo lì da Andreotti, ma di calcio capiva. La squadra stava crescendo. L’allenatore era Pugliese, Oronzo».

 

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Me lo ricordo bene. Era un personaggio fantastico. Quando allenava il Bari portava in campo un galletto e non era molto ben visto al Nord per il suo temperamento focoso. Se la memoria non mi inganna dopo una partita con una milanese in cui si era lasciato andare a qualche intemperanza un giornale meneghino titolò “Pugliese Oronzo non fare lo strano”. Tanto per dire.

«Pugliese era un vulcano. Una meraviglia di spontaneità. Non era un tipo attento alla preparazione tecnica della partita, non un tattico sopraffino. Le partite le affrontava stimolando tra noi più la rabbia che il gioco. E ci riusciva. Ogni incontro era una guerra, per lui. Una volta prima di un match con il Milan prese Ferrari, un buon centrocampista ricordato per la zazzera bionda, e gli disse “Picciotto, tu mi devi portare l’orecchio di Rivera...”».

 

E glielo portò?

«Ferrari era un mastino, ma per acchiappare Rivera ce ne voleva... Dopo arrivò Herrera e tutto cambiò. C’era Marchini presidente, un grande presidente, un vero signore. La Roma cambiò e cominciò a vincere, per esempio una Coppa Italia. A quei tempi non era poco per quella che stava diventando la ex Rometta».

 

Sempre per fatal combinazione anche nella Juventus di quegli anni impazzavano le H. Ad allenarla c’era Heriberto Herrera, che amava il “movimiento” e odiava quel genio di Sivori. Anche lui vinse. Poco, ma vinse: uno scudetto, in modo rocambolesco, e una Coppa Italia, guarda caso a Roma. E com’era Herrera, Helenio?

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«Era un giro avanti a tutti. Quando tutti erano ancora legati, come metodo, al prevalere della parte muscolare, lui faceva fare la stragrande maggioranza degli allenamenti solo con il pallone. Era un martello. Lui diceva una cosa che io ho tenuto nella memoria e ho usato sempre “Come ci si allena, si gioca”. Era metodico, inflessibile in campo ma poi lasciava liberi i giocatori, non era oppressivo.

 

Nel 69-70 usava metodi di allenamento e di valutazione dei singoli per i quali oggi vengono scomodati computer, applicazioni e diavolerie varie. È stato un grande. Lo hanno dimostrato i risultati. Con l’Inter e poi con la Roma. Un’altra cosa, era attentissimo all’alimentazione: poco pane e molta verdura per cominciare i pasti. Pesava sempre i giocatori, “Tieni la grassa” diceva a chi eccedeva il peso consentito».

 

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Qualche giocatore di quella Roma mi ha raccontato che circolavano pilloline negli spogliatoi, vero o è la vendetta postuma di qualcuno lasciato troppo in panchina dal mago?

«Io mi ricordo che qualche volta ci davano Aspirina e anche il Micoren, che oggi è considerato doping, allora no».

 

Cosa rammenta della morte di Taccola, il centravanti di quella Roma?

«Ero molto amico di Giuliano, abitavamo vicini ed era un grande attaccante. Gli volevo bene. Ricordo tutto: in quella settimana non era stato bene. Aveva una febbre che andava e veniva. Il venerdì si sentì meglio e il sabato si allenò ma la barretta del termometro tornò a salire.

 

Eravamo a Cagliari quella domenica, in trasferta. Lui non giocò. Alla fine della partita, negli spogliatoi, si sentì male. Il medico, che era un cardiologo, gli fece una puntura ma lui collassò. Fu terribile, eravamo tutti attorno al lettino del massaggiatore e lo vedevamo perdere conoscenza e respiro. L’ambulanza arrivò con molto ritardo e lui morì. Restammo impietriti dal dolore, in silenzio...».

 

Dopo il primo gol in carriera, il secondo filo che lega il suo destino lungo l’asse Roma Torino è il clamoroso scambio del 1970. Alla Juve passate lei, Luciano Spinosi, che sarà difensore della nazionale e il segaligno Fausto Landini, buon centravanti.

 

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Alla Roma arrivano Luis del Sol, grande regista ma sul viale del tramonto e due giocatori talentuosi e bizzosi come Zigoni e Roberto Vieri, il papà di Cristian, uno che giocava con i calzettoni tirati giù, simbolo, allora, di eclettismo e spregiudicatezza.

«Marchini l’anno prima mi era venuto a dire che la Juventus mi cercava ma io gli chiesi di farmi restare a Roma. Lui mi accontentò. A malincuore, ma mi accontentò. Nel 1970 la società era seriamente inguaiata per ragioni di bilancio e io dovetti cedere alla nuova richiesta. Certo non fu molto vantaggioso per la Roma, se non altro per ragioni di età dei giocatori».

Come furono gli inizi a Torino?

«Nel primo periodo io soffrivo, lo ricordo bene. E l’Avvocato Agnelli lo fece notare, con il suo stile: “Fabio Capello è ancora innamorato di Roma...” disse una volta. E, in verità, era proprio così».

 

Con la Juve vince da calciatore tre scudetti. Era una squadra forte, piena di talenti. E Capello diventa così titolare della Nazionale di Valcareggi che arriva, in un tripudio di attese, ai mondiali del 1974 in Germania.

«Nella fase preparatoria avevamo battuto chiunque. Persino l’Inghilterra, nostra storica bestia nera. A Wembley, con un mio gol. Ma eravamo troppo sicuri di noi, troppo certi di un livello tecnico altissimo: Rivera, Mazzola, Riva, Causio, Zoff...

 

Arrivammo lì e ci sciogliemmo, soprattutto per le divisioni interne. Si formarono subito due gruppi, da una parte i giocatori di Lazio e Napoli, dall’altra noi, quelli dei club del Nord. Pensi che quando a Coverciano assegnarono i numeri delle maglie Juliano, centrocampista partenopeo, si alzò infuriato dicendo “Allora è chiaro che avete già deciso chi gioca e chi no. Noi, no”. Fu una catastrofe.

pasolini davoli capellopasolini davoli capello

 

La cosa che non riesco a dimenticare è la tristezza negli occhi degli emigrati italiani, che attendevano dalla Nazionale una vittoria che fosse un segno di prestigio nazionale e dunque, per loro, di riscatto. Non riesco a perdonarmelo».

 

Posso chiederle, a questo punto, chi è il giocatore più forte con il quale ha condiviso il campo?

«Gianni Rivera, non ho dubbi. Riusciva a fare semplicemente le cose che gli altri non riuscivano neanche a vedere. E con tutti e due i piedi. Un fenomeno di tecnica e intelligenza calcistica».

E gli allenatori dai quali pensa di aver imparato di più?

«Da giocatore certamente ho appreso molto da G.B.Fabbri, che mi allenò nella Spal e mi fece capire il più semplice, ma forse il più difficile, degli insegnamenti: che per fare gol bisogna andare davanti alla porta.

 

Pensai a lui, quando feci così il mio primo gol alla Juve e anche quando segnai con l’Inghilterra. Poi HH per le ragioni che dicevo: riusciva a tirare fuori il meglio, anche dai meno dotati. E poi Liedholm, che  infondeva tranquillità e sicurezza anche se...»

 

Anche se? Non mi dica che il Barone perdeva le staffe...

CAPELLO E CASSANO AI TEMPI DEL REAL MADRIDCAPELLO E CASSANO AI TEMPI DEL REAL MADRID

«La stupirò. Io gli vidi due volte mettere le mani addosso a suoi giocatori. Una volta a Madrid, era la finale di un torneo estivo. Giorgio Morini era stato espulso per doppio fallo e Ramon Turone scagliò il pallone in tribuna. Successe un finimondo. In quei giorni, sempre in Spagna, durante la Coppa Davis, non ricordo cosa era successo con quel tifoso italiano, Serafino.

 

Ricordo che c’era tensione e Liedholm allora entrò in campo e sollevò Turone, che pure pesava molto anche per via del numero infinito di catenine che portava al collo, dicendogli che preferiva giocare in nove che vedere scene simili».

La seconda?

«In allenamento un giocatore molto blasonato entrò durissimo su un ragazzino della Primavera. Il Barone entrò in campo, si mise sotto la faccia di quello e gli disse “Perché non fai così con me?”. Era una persona davvero speciale».

 

È da lui che ha imparato ad essere duro? L’hanno definita, lo sa, un “sergente di ferro”.

fabio capellofabio capello

«Guardi: noi facciamo un lavoro meraviglioso, e ci divertiamo a farlo. Lavoriamo tre ore al giorno, percepiamo emolumenti significativi e godiamo di una grande popolarità. Siamo dei privilegiati. Se a fronte di questo io chiedo impegno e serietà, sono un sergente di ferro? È un lavoro bellissimo e io non accetto che si facciano capricci da prime donne. Penso sempre alla fatica di quelli che, in condizioni ben diverse dalle nostre, rispettano i loro impegni e i loro doveri. Sono fatto così».

 

 

Credo che lei abbia ragione e che quello che dice, sul rapporto tra diritti e doveri, valga non solo per il calcio. Con Berlusconi che rapporto ha avuto da allenatore? È vero che vuole dettare tattiche e formazioni?

«Con me non lo ha mai fatto. Non ha mai interferito, forse anche conoscendo il mio carattere. Era un presidente appassionato e competente e, nei miei anni, faceva un grande lavoro collettivo, al quale dedicava tempo e energia. Poi è entrato in politica e, inevitabilmente, si è allontanato. Pensi che io Forza Italia l’ho vista nascere, ho assistito ai discorsi tra lui e Galliani, al sabato, prima della partita, a Milanello».

 

I risultati il giorno dopo ne risentivano?

«No, proprio no. Eravamo talmente forti...»

Quali sono i giocatori migliori che ha allenato?

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«Mi faccia pensare... Certamente Van Basten, Gullit, Raul, Baresi e Maldini. E poi Gigi Buffon, campione vero».

 

Non manca qualcuno?

«Mi lasci finire. Certamente Totti».

Come erano i suoi rapporti con lui?

«Buoni. Io volevo che lui giocasse un po’ più avanti e credo sia ormai chiaro che era quella la sua posizione giusta. Mi chiedevano perché sostituissi talvolta Montella e lasciassi sempre in campo Francesco. Vincenzo era fantastico nel risolvere le partite dall’area di rigore ma Francesco con una punizione o una giocata di fantasia, in qualsiasi parte del campo, poteva, e può, cambiare il risultato».

 

Che giudizio ha di Totti dal punto di vista umano?

«Francesco è buono e onesto, come persona. Come giocatore, tecnicamente, è super, vede il gioco, anzi lo prevede, in modo incredibile».

Manca ancora qualcuno, mister.

«So dove vuole arrivare. Del Piero non è stato un buon giocatore, è stato un ottimo giocatore. Ma quando io sono arrivato alla Juve era in fase calante. Non riusciva a saltare l’uomo. Ma è stato uno dei grandi che ho avuto la fortuna di allenare nella mia vita».

 

Ha più nostalgia per la Roma o per la Juve?

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«Intanto c’era una robusta differenza: con i bianconeri dovevo fare solo l’allenatore, alla Roma avevo compiti, per necessità, dalla A alla Z. Però, o forse proprio per questo, alla Roma ho creato di più, ho dato molto e molto ho avuto e raggiunto. Alla Juve ero una parte, certo rilevante, di un ingranaggio aziendale che funzionava in modo perfetto».

 

Quale è stata la partita decisiva dello scudetto del 2001?

«Rieccoci: il 2-2 con la Juve. Ma quella che mi preoccupò di più fu l’ultima col Parma».

Ero in tribuna, ricordo la sua espressione tesa, mentre i tifosi invadevano il campo

«Sì, temevo che qualcuno desse un pugno a un giocatore del Parma e ci dessero un due a zero a tavolino contro. Perdere lo scudetto così, dopo tanta fatica, mi avrebbe fatto impazzire»

 

Come festeggiò quello scudetto?

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«Non me ne parli. Non ci fu la festa, fu incredibile. Finita la partita sono andato al ristorante con mia moglie e amici. Poi ho girato per le case dove sapevo che i ragazzi si erano riuniti, andai da Montella, da Batistuta. Ma non ci fu una cena, nulla. Dissi: possibile che non possiamo festeggiare tra di noi? Il giorno dopo partii e non ero al Circo Massimo, dove era giusto che i tifosi si ritrovassero con la squadra. Ma non abbiamo avuto un momento solo per noi e questo mi rattristò».

Con la Juve come faceva?

«Le racconto questa. Giocavo ancora, vincemmo il campionato e andammo a cena in discoteca. Quando uscii, alle sei di mattina, con mia moglie e Zoff e la moglie, Dino disse “Se mi vedesse mio padre... Lui a quest’ora sta pulendo le stalle e io esco da una discoteca...».

Com’è il calcio di oggi?

«L’Italia si è impoverita sul piano internazionale, basta vedere il ranking. Ma quest’anno il campionato sarà più competitivo. I presidenti hanno messo i soldi, o i debiti, e hanno comprato tanto e spesso bene. Ci sono squadre, come Udinese, Palermo, Fiorentina che scelgono bene i giovani in giro».

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E di Balotelli che dice?

«Non ci metto becco. Dico solo che mi è dispiaciuto vedere un talento perdersi. Deve fare un mea culpa».

 

Io gli darei una chance, non si può dichiarare finito un talento a 25 anni...

«Sì, ma dipende solo da lui».

E Cassano? È vero che, per usare un eufemismo, non andavate molto d’accordo?

«È un grande talento, poteva dare molto di più al calcio italiano e a se stesso. Ora è maturato e aspettiamo di vedere la sua classe esprimersi al meglio. Io con lui avevo un rapporto di conflitto e di amore. Il primo per i comportamenti, il secondo per come giocava al calcio, quando voleva».

Lei sa che i tifosi della Roma rimasero molto male, e dico poco, quando lei passò d’improvviso alla Juve...

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«Il mio ciclo alla Roma, dopo cinque anni, era finito. Avevo vinto uno scudetto, una Supercoppa, eravamo arrivati due volte secondi e una in finale di Coppa Italia. Mi ero accorto che non davo più quello che volevo ai giocatori e che loro non rispondevano più come prima. In quei casi bisogna cambiare, nell’interesse di tutti».

 

E la sua frase famosa sul fatto che la Juve non era certo il suo sogno?

«Le motivazioni della scelta gliele ho dette. Ma il nostro è un mestiere. E può capitare di contraddirsi, per motivazioni professionali che superano quanto si era sinceramente detto».

Quali sono i giovani migliori del campionato?

«A me piace molto Bernardeschi della Fiorentina, aspetto Dybala alla prova del grande salto e Romagnoli, che di carattere mi sembra averne».

 

Come vede la partita di oggi?

«Penso sia il momento giusto per la Roma di affrontare la Juve. I bianconeri sono ancora un cantiere, hanno perso Tevez che era capace di dare la scossa alla squadra nei momenti difficili. E ha perso Pirlo che, con una punizione in rete o un calcio d’angolo ben messo, poteva cambiare il corso di un match».

Come le sono sembrate alla prima di campionato?

«La Roma andava piano, troppo piano e la Juve era confusionaria, non era lucida».

Che opinione ha di Garcia e di Allegri?

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«Garcia l’anno scorso è partito molto bene e quest’anno ha la squadra giusta per puntare allo scudetto. Allegri ha dimostrato di saper vincere al primo anno sia con il Milan che con la Juve. E poi ha cambiato con piccoli tocchi, intelligentemente».

I suoi giocatori preferiti della partita dell’Olimpico?

«Dico Totti. E aggiungo Nainggolan. Per la Juve Buffon, sempre».

 

Qual è l’allenatore nuovo che la interessa di più?

«Mi incuriosisce Paulo Sousa, ha cominciato mostrando un bel gioco».

Mi dice la sua formazione ideale di tutti i tempi?

«Vediamo... Zoff, Djalma Santos e Maldini terzini. Baresi e Beckenbauer centrali, poi, da destra a sinistra, Garrincha, Messi, Bobby Charlton, Cruyff, Pelè e Maradona ».

 

Non voglio rubarle il mestiere, ma non è un po’ scoperta, così...

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«Mi dica chi toglierebbe lei di quelli davanti... ».

Un’ultima domanda: lei è un uomo attento al bello, all’arte e conosce questa città. Cosa le manca di più di Roma?

«I primi tempi, quando ero giocatore, la sera tardi prendevo la macchina, salivo sul Campidoglio, quando si poteva parcheggiare e poi andavo da solo a vedere il Foro dall’alto. Una persona raziocinante può non lasciare un pezzo del proprio cuore a Roma?».

FABIO CAPELLO E LA MOGLIE LAURA LASCIANO LA LORO CASA LONDINESEFABIO CAPELLO E LA MOGLIE LAURA LASCIANO LA LORO CASA LONDINESEfabio capello ct englandfabio capello ct england