DAGOREPORT - SI SALVINI CHI PUO'! ASSEDIATO DAL PARTITO IN RIVOLTA, PRESO A SBERLE DA GIORGIA…
Alberto Mattioli per lastampa.it
Il nuovo “Rigoletto” dell’Arena di Verona con la regia di Antonio Albanese si potrebbe liquidare con una sola parola: inutile. Invece merita una riflessione perché è sintomatico di un certo modo di (non) concepire la regia d’opera in Italia, e di blaterare di conseguenza.
Albanese colloca la vicenda, invece che nel “secolo XVI” come da libretto, negli anni Cinquanta del Novecento, fra il neorealismo e “Novecento”, inteso come film di Bertolucci, in una Padania afosa di mondine, agrari, vestitini di cotone stampato, biciclette. Fin qui, nulla di male: “Rigoletto” lo si può ambientare anche su Marte, se serve a illuminarne la drammaturgia. Ma è appunto quel che non succede all’Arena.
Questa non è affatto una regia “moderna”, come sproloquiano i talebani modello “povero Verdi”, confondendo al solito la regia con scene e costumi. È un “Rigoletto” invece del tutto tradizionale, quindi sbagliato, perché tutti continuano a fare gli stessi gesti polverosi e/o senza senso delle produzioni in giustacuore e cappello piumato, il che rende ancora più grottesco che lo facciano con il Borsalino in testa.
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Inutile dire che Albanese nulla ha capito dell’estetica dell’opera, del grottesco come categoria per interpretarla, insomma nulla sa di “Rigoletto”. Questa non è una regia moderna o tradizionale: è, semplicemente, una non regia, ennesima conferma che l’opera va affidata a chi la fa di professione.
Certo non è facile parlare di regia se le quattro recite di “Rigoletto” presentano ognuna un protagonista diverso, che quindi evidentemente di prove non ne fa, concesso e non dato che ci sia qualcosa da provare.
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Dirige Marco Armiliato con il solito mestiere, particolarmente sollecitato dalle eccentricità del baritono. Il terz’atto è molto bello. Ci sono due peccati, però. Quello veniale è tollerare le ignobili puntature “di tradizione”, che sono un verdicidio (curiosamente, Eyvazov non tenta l’unica che ha forse un senso, il re sopracuto dopo la cabaletta, peraltro eseguita con il suo bravo daccapo), ma siamo pur sempre all’Arena. Quello mortale è che nel terz’atto il Duca chieda a Sparafucile “una stanza e del vino” invece che “tua sorella e del vino”, come Verdi voleva, la censura vietò e l’edizione critica certifica. Nel 2023, è un vero scandalo. A 172 anni dalla prima, ancora ci si schiera contro Verdi e con i censori. Vergogna.
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