CHE ARIA TIRA IN AMERICA? QUELLA GUERRAFONDAIA DEL FILM “LONE SURVIVOR”, PRIMO SUCCESSO 2014, CHE SANTIFICA I NAVY SEALS AMMAZZA-TALEBANI

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da www.salon.com

"Lone Survivor," il film d'azione con Mark Wahlberg basato sulla storia vera della missione Navy SEAL in Afghanistan del 2005, è uscito in alcuni cinema delle grandi città a fine dicembre e quasi nessuno se ne è accorto. Adesso sta sbancando nei botteghini americani: è il primo successo del 2014 e il primo film sulla guerra del terrore che conquista il grande pubblico.

Il regista Peter Berg non ha inserito nel film specifici messaggi ideologici sull'era Bush perché già di per sé ha suscitato scetticismo e dichiara: « Questa storia offre al pubblico la possibilità di esprimere il proprio patriottismo, senza fare politica».

Ovviamente fingere che un film non sia politico è una posizione ideologica, ancor di più in quest'opera sciovinista e pornografica di propaganda della guerra.

"Lone Survivor" non contiene politica nel senso che non offre allo spettatore il contesto né i motivi per cui i soldati vanno ad uccidere in un luogo che la maggior parte degli americani non saprebbe nemmeno trovare sulla cartina. Si sa che vanno a caccia di un capo talebano, un terribile uomo che decapita chi è sospettato di collaborare con gli americani. Non spiega mai i contrattempi e i problemi che portano l'unità Luttrell a rimanere intrappolata in un territorio ostile circondato di talebani. Il film fa sembrare i talebani più numerosi degli americani, e questo può non essere corretto.

Il film non è politico nel senso che presenta Luttrell e i suoi compagni che lottano e sfidano ogni avversità, e racconta la verità, cioè che molti di loro non ce l'hanno fatta. Ma il simbolismo visivo e l'iconografia del film non sono nè apolitici nè ideologicamente neutrali.

Berg è un regista competente che gira scene di guerra eccitanti e tese, che poche volte scadono nell'incoerenza. Ma qui vediamo ripetutamente gli afghani buttati giù al primo colpo. Boom e sono morti. Agli americani invece si spara dieci volte e non muoiono mai.

Alla fine, quando muoiono, la scena è lirica, come l'agonia di Gesù Cristo, con dettagli di sangue, ossa, cartilagine, flashback in stile pubblicità della Chevrolet dove si vede la vita che li aspettava a casa. Drammaticamente efficace. Però dà anche l'impressione che la sofferenza degli americani sia diversa, più profonda, di quella degli afghani, dei quali infatti non sappiamo nulla. Per loro non ci sono mogli disperate e bimbi che non rivedranno padri. Si limitano a farsi avanti come formiche al picnic del Quattro Luglio e vengono abbattuti altrettanto facilmente.

Ora, i film di guerra questo lo hanno sempre fatto. O perlomeno, i brutti film di guerra hanno sempre demonizzato il nemico. Non tutti. Non "All'Ovest niente di nuovo", "Orizzonti di gloria", o "Full Metal Jacket."

"Lone Survivor" sta facendo diventare il conflitto Iraq-Afghanistan una zona per le fantasie tragiche da macho, per il sogno di grandezza americano. Ci dice che qualsiasi cosa pensiamo dell'operato del nostro paese negli ultimi dodici anni, morire per l'America è un'impresa da santificare.

Il fatto che la gente voglia vedere un film d'azione di qualità nel bel mezzo dell'inverno non è poi così deprimente. Lo è il fatto che deglutisca questo suo disgustoso simbolismo.

 

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