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Malcom Pagani per "il Fatto quotidiano"
Nella mia famiglia non si dice mai di no. A nessuno. Siamo così purtroppo e non possiamo farci niente". Alla fidanzata di allora, "l'uomo d'onore" Giuseppe Sculli diceva la verità . Dieci anni dopo l'orizzonte non è cambiato. Esistono i rapporti di forza. I dinieghi che si possono sostenere, i messaggi da mandare all'esterno, le maglie di cui simbolicamente è meglio non svestirsi e i sì che è necessario dire.
Le radici. Il rischio. Il destino. Quello riservato all'ala del Genoa è di poter volare nei limiti di una gabbia. Con l'illusione di essere libero, esercitando la propria forza in uno zoo di deboli. Forte con i tifosi, ubbidiente con i vincoli ancestrali. In prigione comunque. Presto o tardi. Da eccesso vivente, attrazione bullesca da circo, parodia involontaria, per frequentazioni, linguaggio, inclinazioni, di veri profili criminali. Suo nonno, Peppe Morabito, feudatario di Africo, era un temuto ras della ândrangheta. Peppe Sculli ha provato a fuggire dalla Calabria, imitando l'ossessione dei latitanti. Evadere.
Dalla periferia del pallone e dalla normalità . Uno in mezzo a mille. Da non confondere con i colleghi. Da prendere a schiaffi come il centrocampista serbo Bosko Jankovic. O da insultare. "Questo è coglione", dice dell'attaccante Luca Toni mentre ipotizza di ricattarlo a mezzo foto per qualche allegra serata a distanza di sicurezza dalla compagna Marta, chiamata, tra gli sghignazzi, "Carabinerovic". Sculli ha il suo codice. Silenzio e opportunismo. Sa quando annuire (l'ultrà Massimo Leopizzi insulta il portiere Sebastian Frey, "una merda", e Peppe concorda: "Hai pienamente ragione") e quando incassare la sottomissione del suo presidente, Enrico Preziosi.
Uno che gli paga lo stipendio, commercia in giocattoli senza capire che quello principale è andato in pezzi e ancora oggi, scisso tra ambiguità e terrore (la moneta bifronte scambiata in questi strani giorni) sostiene di continuare a "volergli bene". Prima di ritornare a gennaio in Liguria, ancora sentimentale di una valigia sempre aperta tra Juve, Verona, Modena (dove diventò amico di Stefano Mauri e Omar Milanetto) e Messina, Sculli giocava nella Lazio. Non ci sarebbe mai arrivato se non fosse partito da Crotone.
In tribuna si appollaiava suo padre Francesco, geometra del comune di Bruffano Zeffirio, Aspromonte. Nel 2002, in occasione delle elezioni, la famiglia di Sculli appoggiò una lista civica. "Uniti per Bruzzano". E il ragazzo, tra le 1.200 anime del paese, seppe darsi da fare. Il 22 maggio dello stesso anno, intercettato come un Cetto LaQualunque qualsiasi, Sculli raccontava al telefono i metodi di persuasione in atto. Un certo A. S. non era convinto dell'opportunità offerta da "Uniti per Bruzzano", ma, spiegò Peppe, seppe ravvedersi: "L'ho fatto stringere dal Barbazza... à andato il Bar-bazza con la Mercedes lo voleva investire. Gli ho detto che deve venire con me e prendere la scheda controllata e finiamola qua".
Sistemi rapidi. Replicati anche il 2 giugno 2002. A Crotone, con la squadra di casa già retrocessa in C, ormeggia un Messina disperato. Per non disputare lo spareggio con il Cosenza i siciliani devono vincere e sperare che il Bari, contestualmente, batta la Ternana. Risultati che si verificano (doppio 2-1) e festa dal conto salato. Quando il cugino di Sculli, Rocco, chiede "Ma i âcapicolli' li hanno portati?". Peppe esulta: "Minchia (...) 4 qua e 6 li hanno dati al Bari e hanno affondato la Ternana". Sculli voleva la sua parte. Qualcuno aveva deciso senza di lui e Peppe, allora, si era incazzato. Facendo quello per cui gli ingenui soffrono. Segnando il gol dell'1-1.
Un avvertimento. A fine primo tempo, come rivelò lo stesso Sculli al cugino, accadde di tutto: "Gli ho fatto stringere il culo sull'uno a uno. Nel sottopassaggio siamo finiti a botte. Gli ho detto caccia le mani. Via di qua. Non mi cacate il cazzo, minchia. Un macello è successo. Sull'uno a uno sai come se la facevano addosso. Sembrava che mi avessero dato il nandrolone. A 300 andavo.
Non mi prendevano mai, tunnel, controtunnel. Con Campolo (all'epoca capitano del Messina, ndr) ho litigato. Mi ha detto: âTu non sei un uomo d'onore'. A me! Gli ho detto: âNon permetterti di dirlo più, perché ti aspetto fuori e ti do una passata di botte, porcheria (...). Poi ho litigato con un dirigente, gli ho sparato un pugno in testa". Viuuleenzaaa. Coerenza.
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