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"IL FESTIVAL DI CARLO CONTI NON HA DISTURBATO NESSUNO" - WALTER SITI INFILA LA PENNA NEL VELENO PER COMMENTARE SANREMO: “IL PROBLEMA È CHE QUANDO SI DEVONO RIEMPIRE CINQUE SERATE, E SONO MOLTI I TEMI CHE È MEGLIO EVITARE, LA NOIA INCOMBE. SI È FATTO AMPIO USO DI NOSTALGIE E SIPARIETTI INSULSI, SI È LASCIATO SPAZIO AGLI SPONSOR E A MOLTE MARCHETTE DI PROGRAMMI RAI; ANCHE LA PERFORMANCE DI BENIGNI APPARTIENE ALLA CATEGORIA, VISTO CHE PROMUOVEVA IL PROPRIO RITORNO SU RAIUNO. INSOMMA: IL FESTIVAL DI UN’ITALIA CHE HA PAURA DI ESPORSI IN UN SENSO O NELL’ALTRO. A ME È SEMBRATO IL FESTIVAL PIÙ POLITICO DEGLI ULTIMI ANNI…”
Walter Siti per “Domani” - Estratti
roberto benigni e carlo conti 2
Martedì, nella serata inaugurale, al Festival di Sanremo è intervenuto Papa Francesco con un messaggio registrato; ha parlato di pace, sul palco lo ascoltavano un Carlo Conti commosso e le due interpreti (l’ebrea Noah e la palestinese-israeliana, di confessione cristiana, Myra Awad) che erano già pronte per cantare insieme Imagine di John Lennon. Quell’Imagine che nel testo dichiara la fine delle Patrie ma anche delle religioni («and no religion too») come presupposto di una vera pace universale.
Un messaggio totalmente terreno quello del Papa, in cui non si accennava all’aspetto soprannaturale e dottrinale della religione, perché si sa che dalla dottrina nascono gli scismi e i conflitti. Metafora perfetta di quel che il Festival ha voluto essere: unanimista, irenico, che non disturba nessuno. Come molti hanno detto, un Festival normalizzato e restauratore, dopo le polemiche degli anni scorsi.
roberto benigni e carlo conti 1
Niente politica dunque, niente migranti di seconda generazione che lanciano slogan di protesta, niente monologhi più o meno ambiziosi e/o noiosi, solo musica e soprattutto musica che parlasse d’amore; quale valore più universale e condiviso dell’amore?
Ma proprio perché universale, il tema tende a essere declinato secondo il mood del momento: così ci sono stati soprattutto testi sulla crisi di coppia.
Se i Coma_Cose hanno cantato «un divano e due telefoni/ è la tomba dell’amore,/ ce l’ha detto anche un dottore», Noemi ha preso atto che «siamo troppo diversi» nelle complicazioni della convivenza e nella scelta di avere figli, mentre Checco dei Modà ribadisce «forse è vero/ siamo fatti tutt’e due per qualcun altro». Per non parlare di Fedez.
Quale coppia
La coppia, che nei testi di una volta era il lieto-fine, ora è l’inizio dell’ansia e la statistica arriva puntuale a confermare: da una recente rilevazione solo il 38% degli italiani si dichiara soddisfatto del rapporto col partner, dato più basso in Europa. Pare che gli italiani non reggano più il trasformarsi dell’amore romantico in complicità e affetto (come in quella vecchia struggente canzone di Gaber, Ora che non son più innamorato).
L’unico amore che resiste è quello “protettivo”: di un padre verso un figlio (Brunori Sas, ma anche Paolo Kessisoglu insieme alla figlia adolescente nella serata dei duetti) o di un figlio verso una madre colpita da Alzheimer (Cristicchi, certo sincero e commovente ma elusivo sugli aspetti più intollerabili e crudeli della situazione, sull’odio che essa può generare), o perfino di un amante verso l’amante abbandonata (Massimo Ranieri).
Nell’intento di non dare fastidio a nessuno, il Festival si è mostrato moderato anche nelle censure. Ha fatto in modo che da Bella stronza di Masini sparissero le strofe più violente, Conti e Benigni non hanno osato, nel loro ricordo dell’Inno del corpo sciolto, cantare i versi più urticanti («la voglio reggere per una stagione/ e poi con la merda fare la rivoluzione»).
Però quei testi ci sono stati, forse hanno spinto qualcuno a visitarli integralmente, nessuna polemica è potuta scattare nemmeno su quello. Fedez ha messo le sue barre al servizio di un dolore vero, in diretta, ha impressionato quando ha accennato agli psicofarmaci. I rapper sono stati ripuliti, hanno cantato cose da bravi ragazzi coi tatuaggi pudicamente coperti.
Benigni, già da parecchio ormai unanimista di suo ed entusiasta cronico, si è limitato a punzecchiature senza troppo far male, su Giorgia e Salvini e Musk («o Roma, o Marte», quanto meno satirico del longanesiano «o Roma, o Orte»), niente come la sua canzonetta dedicata all’onnipotenza di Berlusconi («Mi compro tutto/ dall’A alla Zeta/ ma quanto costa questo cazzo di pianeta./ Lo compro io, lo voglio adesso/ mi compro Dio, ovverossia compro me stesso»).
Tutto ora appare patinato da una specie di rassegnazione. Non è mancato l’impegno, doveroso in un evento "culturale” come Sanremo; ma si è diretto su idee ormai considerate incontrovertibili – la lode del corpo non conforme (Katia Follesa che mostra scherzando le proprie bingo wings, il coraggio sommitale di Bianca Balti), l’omaggio ai defunti (circa un paio per serata), la vitalità istruttiva dei diversamente abili (il bellissimo intervento del Teatro Patologico), la condanna della violenza sulle donne, con ragazze premiate e il tormentone ripetuto «se una donna dice no, è no» (non senza qualche postilla di dubbio gusto: «se un uomo dice no, è che non ce la fa», ha ironizzato Geppi Cucciari).
La nostalgia
Quando si è così prudenti, vuol dire che l’avvenire è incerto e che si ha paura di posizioni troppo esposte; quindi insieme alla prudenza è buona norma volgersi verso il passato. Quello del 2025 è stato anche il Festival della nostalgia, in varie declinazioni: nostalgia di un amore ormai finito (la canzone vincitrice), nostalgia per l’infanzia (Rocco Hunt), nostalgia ligure per Bresh e Cristiano De André (nella sera dei duetti). Ma anche sagra delle vecchie glorie: premi alla carriera per Zanicchi e Venditti, ospiti stranieri (Simon Le Bon 67 anni, Goran Bregovich 75, Toquinho 79) e italiani (Edoardo Bennato 79, Johnson Righeira 65).
Più nascosta nella forma dei testi, e quindi più significativa, la nostalgia che promana dall’abbondanza di citazioni: da Tony Effe che cita Roma nun fa’ la stupida stasera e insieme Califano e Sinnò me moro di Gabriella Ferri, passando per Serena Brancale (Anema e còre) e il felliniano Amarcòrd di Sarah Toscano, poi qua e là spigolando saltano fuori La vie en rose e Vita spericolata e Almeno tu nell’universo.
(...)
Il problema è che quando si devono riempire cinque lunghe serate, e sono molti i temi che è meglio evitare, nonostante il numero dei cantanti la noia incombe. Si è fatto ampio uso di ricorrenze e istituzioni (la memoria delle foibe, i 160 anni delle guardie di capitaneria costiera), si è lasciato conveniente spazio agli sponsor; soprattutto ha prevalso l’orgoglio aziendale con molte promozioni (volgarmente dette marchette) di programmi Rai; anche la performance di Benigni tecnicamente appartiene alla categoria, visto che promuoveva il proprio atteso ritorno su RaiUno.
Se nemmeno questo basta per tappare tutti i buchi della scaletta, agli autori non resta che inventare (si spera vergognandosi) dei siparietti insulsi – come quell’insano giochino a chi fosse più glamour tra il sedicente trasgressivo Malgioglio (80 anni) e la luminosa quarantenne malata Bianca Balti, o quell’indecente test tra le co-conduttrici della terza serata (la mora, la bionda e la rossa) su quale fosse il loro uomo ideale: roba che nemmeno Baudo nei suoi giorni peggiori.
Dopodiché Conti è un professionista e le qualità della spalla comica ce le ha nel sangue, per cui si è anche riso tra un dovere e l’altro.
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geppi cucciari carlo conti mahmood 2
Molti cantanti hanno preteso di abbracciare i conduttori per avere i punti del Fantasanremo. Mentre si aspettava l’ultima votazione, Mahamood è arrivato con la sua voce maghrebina e un corpo che da solo crea sconcerto, a gridare «della virilità non mi importa un cazzo». Insomma: il Festival di un’Italia che ha paura di esporsi in un senso o nell’altro, in attesa di qualche soluzione miracolistica, mentre si sprecano abbracci per un gioco idiota e la bellezza punta a un palcoscenico internazionale. A me è sembrato il Festival più politico degli ultimi anni.
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