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DAGOREPORT - DOPO APPENA TRE SETTIMANE ALLA CASA BIANCA, TRUMP HA GIA' SBOMBALLATO I PARADIGMI…
Mario Serenellini per “la Repubblica”
Stephen King ha ricevuto trenta no per Carrie
Macchè paura : vampiri, fantasmi, demoni, zombie, lupi mannari, tutte le forze del male calamitate da mezzo secolo nei suoi libri e negli incubi dei suoi lettori non sono niente rispetto all’inquietudine per quell’intrico muscolare che affianca lo scrittore nei suoi spostamenti a Parigi. Per raggiungere lo studio 134 di Radio France il tragitto è breve, ma l’ombra della guardia del corpo è lunga e, in ascensore, larga e montagnosa. È come trovarsi incastrati in una pagina di Stephen King e non sapere come uscirne.
Lui è gaio, scodinzolante, pronto all’aneddoto. La sera prima, davanti a duemila spettatori, si è divertito a mettere tutti sull’attenti davanti al brivido: «A me il buio fa un po’ paura. E a voi? Sapete che, secondo uno studio delle compagnie assicurative americane, il cinque per cento della gente dimentica di chiudere la porta di casa? Occhio quando rientrate nel buio della vostra camera. Mentre siete qui, qualcuno si è forse infilato sotto il vostro letto? O nella doccia, cosa assai più frequente secondo le statistiche. A proposito ora che uscite, una volta in macchina, date una sbirciatina al retrovisore…».
King gioca. Anche con il persecutore di turno, temporanea versione stampa della micidiale fan di Misery, che lo sta sequestrando non per fargli cambiare finali di bestseller ma per farsi spiegare, lungo i corridoi infiniti alla Overlook, la ricetta: quella d’uno scrittore di sessantasette anni che nell’arco di cinquantatré romanzi e centosessanta racconti (anche sotto pseudonimo: Richard Bachman), dall’esordio con Carrie nel ‘74 all’ultimo Doctor Sleep, si è via via elevato agli occhi di tutti da fabbricante dozzinale di romanzi da stazione o di genere a figura maggiore nella letteratura Usa, con gli invidiabili record di trecento milioni di copie vendute in trentadue lingue e almeno cento adattamenti su piccolo e grande schermo.
«Nessun patto con il diavolo. Solo con me stesso. Ho scritto tanto, ma solo su quel che conosco. Le mie storie, anche se fantastiche, nascono dalla realtà minuscola della cittadina in cui abito, anzi, dal mio vicinato, provinciale e pettegolo».
Jeans sdruciti, stivali, t-shirt, Stephen King, americano qualunque ha la semplicità sicura di chi non ha nulla da nascondere. Il suo pianeta oscuro, come raccontava già in Autobiografia di un mestiere, si forma ogni volta nella banale luce quotidiana del suo quartiere, assunto a campionario universale: «Lei non conosce Bangor, nordest America, abeti e rocce del Maine?
Se ha letto i miei libri la conosce, e molto bene: è la grigia Derry, la città di It, è la Haven di Colorado Kid e Le creature del buio, la Castle Rock di Cujo, La zona morta, Cose Preziose, la Chester’s Mill inchiodata sotto la cupola di vetro in The Dome. Tutti “doppi” di fantasia, sperimentati ricalchi geografici e sociali, ogni volta vetrina del meglio e del peggio d’America. Io sono come gli abitanti di quei luoghi. Regolare, abitudinario, ripetitivo. Dieci pagine al giorno, ogni giorno dell’anno, Natale escluso. Uno-due libri all’anno».
Il nuovo, primo di una trilogia in uscita in Italia a fine settembre per Sperling&Kupfer, è Mr Mercedes, storia di uno che progetta una strage «simile a quella della maratona di Boston» chiosa lo scrittore. «La mia immaginazione un po’ tormentata non è conseguenza di traumi o sofferenze infantili. Sono stato un bambino del tutto normale. E sono un adulto in nulla diverso dagli altri: pensi, sposato da quarantasei anni con la stessa donna, Tabitha, e padre di tre giovani impagabili».
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Non va esattamente a braccetto con l’America, che esce spesso malconcia dalle sue pagine: «La guardo dal mio punto di vista di Democratico e con la necessaria distanza critica. Ma l’America è il mio mondo, il paese di cui adoro il diffuso senso della famiglia, e i paesaggi: stringi stringi, rimango uno che viene dalla campagna. Ci sono però anche aspetti che detesto e che non smetto di combattere: la circolazione delle armi da fuoco, che ho attaccato in Guns, il temperamento militaresco, la cieca devozione al denaro. Tassatemi, cazzo! si intitolava l’editoriale che scrissi sul Daily Beast due anni fa sollecitando il fisco a una maggiore severità con i Paperoni d’America. Quella volta sì che devo aver fatto davvero paura a qualcuno».
Con tutto l’horror in circolazione, nei libri, nei film, nella realtà, è diventato più difficile sfornare situazioni da brivido? «Sì. Quando, ancora giovane, vidi per la prima volta il film di Brian De Palma tratto da Carrie, mi ricordo che alla sequenza finale d’una mano che di colpo esce dalla tomba c’è stato in sala un soprassalto collettivo. Ma poi tanti film hanno copiato quella scena... chi mai oggi ne sarebbe impressionato? Anche nel cinema siamo al riciclaggio continuo, alla catena di montaggio della paura. Abbiamo perso l’innocenza della sorpresa.
Il mio più grande terrore lo provai a dodici anni: la sequenza della vasca in I diabolici di Clouzot, dove un uomo, sott’acqua, pare morto e, d’improvviso, apre gli occhi. Occhi completamente bianchi». Ha provato grandi paure anche da adulto? «Ho subìto cinque anni fa un incidente quasi mortale, a pochi passi da casa: ho temuto, per mesi, di non poter più riprendere a scrivere e a vivere. Oggi s’addensano altre ombre: un restringimento della retina che potrebbe portarmi alla cecità. I veri mostri sono nella realtà.
Si chiamano cancro, Alzheimer. Sono questi i miei veri terrori: perdere la vista o la memoria, azzerare lo sguardo o il cervello. Libri e film dell’orrore hanno ridotto a metafora le nostre minacce quotidiane, trasponendo in game fantasy le sfide reali che ci aspettano: Alien, per esempio, dove la creatura spaventosa che esce dalle viscere delle vittime è l’incombente mistero che viveva da sempre dentro il nostro corpo, la malattia che non avevamo mai guardato in faccia e ora ci sbava addosso il nostro destino».
Nei romanzi di King rivivono spesso i suoi drammi privati. In Shining e in Doctor Sleep l’alcolismo e la droga, da cui si è liberato: «Sì, sono autobiografici quanto alla mia passata dipendenza. Ma non sono mai stato violento, non ho mai picchiato i miei figli. In qualsiasi scritto, anche autobiografico, è sempre l’immaginazione a prevalere». Per la regia di Shining se l’era presa con Stanley Kubrick. Il sequel, Doctor Sleep, è una sua personale rivincita, una riappropriazione?
FOTO DI STANLEY KUBRICK NELLA METRO DI NEW YORK
«Trovo straordinari tutti i film di Kubrick, ma Shining iberna il romanzo, che era uno studio di carattere, d’un uomo malato che cerca d’esser forte e fallisce. Nel film, invece, Jack Nicholson è pazzo sin dall’inizio, pare appena uscito da Qualcuno volò sul nido del cuculo. Si sa, un film è come un figlio che si manda a scuola. Il genitore si augura il meglio, ma perde il controllo diretto ». L’hanno definita la prima popstar della letteratura Usa, per lo stile ma anche perché è un abile chitarrista. Come interagisce la musica nella sua pratica di scrittore?
«La saga di La torre nera è vicina a una playlist, intrisa di cultura pop, gli Stones, ZZ Top… La musica mi accende le immagini, dà pepe alla storia. La torre nera è nata dalla musica: in una sala di cinema, dalla colonna sonora di Ennio Morricone per Il buono, il brutto e il cattivo ». Che cosa l’attira del soprannaturale? «Mi diverte, mi piacciono i fantasmi, tutto quel che ci dà la pelle d’oca. Ma la paura non mi basta: il mio proposito è di trasmettere emozioni, stabilire un legame intimo, profondo con il lettore. E, una volta messo in moto un evento particolare, desidero vedere e descrivere “come va a finire”.
Che mai succederà se qualcuno scivola nel cervello altrui, come in Shining o in Doctor Sleep ? Non è più questione di soprannaturale, ma di osservazione della natura umana. È questo, alla fine, il lavoro di ogni scrittore: non molto lontano dall’immaginazione infantile, ultima oasi di libertà prima dell’integrazione nella routine sociale. Scrittori, cineasti, artisti godono del privilegio di rimanere bambini per tutta la vita: autorizzati a una perpetua ora di ricreazione! Delegati al gioco per conto di quanti non ne hanno più il tempo, la voglia o la possibilità. Per questo supplemento d’infanzia siamo persino superpagati quando chiunque l’accetterebbe gratis».
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