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“TESTE MATTE” (MEMORIE DA GOMORRA) - DALLA COCA AGLI AGGUATI: QUEI GUAGLIONCELLI CHE SI SONO FATTI CAMORRISTI PER DIFENDERSI DAI BOSS: “CI SENTIVAMO DA SOLI CONTRO IL MONDO” - IL PAESAGGIO E’ NAPOLI E IL VIRUS DELLA CAMORRA STA NEL SUO SANGUE...

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Pino Corrias per "Il Venerdì - La Repubblica"

 

Sasà teneva la guerra in testa, la cocaina nel sangue e due pistole infilate nei calzoni. Faceva banda con le Teste Matte, i soldati ribelli dei Quartieri Spagnoli, che per una manciata di anni si sono fatti camorristi per difendersi dalla Camorra. 

 

Sasà era cresciuto sulla strada. A sette anni vendeva sigarette nei vicoli. A dodici portava i soldati americani dalle puttane. A quattordici trafficava hashish e si era specializzato in Rolex: suo cugino Totò guidava il motorino, lui strappava, il ricettatore comprava. Un giorno il boss dei Quartieri gli dice: se tu e tuo cugino fate i denari, a noi ci dovete dare la percentuale, perché noi siamo i padroni della zona. Loro hanno chinato la testa, ma controvoglia. Erano guaglioncelli. E quando si sono fatti grandi non l’hanno chinata più. 

 

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Sasà è il protagonista di questa scia di inchiostro e di sangue che si chiama Teste Matte, romanzo scritto a quattro mani da Guido Lombardi, regista, e da Salvatore Striano, l’attore venuto da quegli inferni di malavita napoletana, protagonista di Cesare deve morire dei fratelli Taviani e di molti altri film, compreso Gomorra di Matteo Garrone. 

 

La storia di Sasà e quella del suo autore coincidono in una infinità di punti, molti dei quali segnati con il gesso bianco della cronaca nera e poi dagli abissi di crudeltà che un giorno alla volta si sono mangiati il sonno, il cuore, la vita fino a farlo diventare «l’ultimo degli uomini». Come lui, anche il suo personaggio, nato nel 1972, è figlio del terremoto e della strada.

 

Cresce durante gli anni della guerra di camorra, quella della Nuova Famiglia contro il clan di Raffaele Cutolo, detto il Vangelo, mille morti nei primi anni Ottanta, «alla mattina le ambulanze raccoglievano i cadaveri come gli spazzini i sacchi neri». 

 

Racconta: «Mio padre lavorava al porto, usciva alle sei del mattino e tornava a casa per dormire. Mia madre badava a mia sorella ammalata. Ho lasciato la scuola a sette anni, non sapevo né leggere né scrivere. Sulla strada ho imparato tutto. A dieci anni ero occhi che osservavano e orecchie che ascoltavano. La musica era una sola: il coraggio, l’onore, la vendetta. Il forte che mangia il debole. E io volevo diventare forte, difendermi e difendere la mia famiglia». Dice: «Non cerco giustificazioni. Ma né io, né il mio personaggio avevamo alternative». 

AGGUATO DI CAMORRA TESTE MATTE AGGUATO DI CAMORRA TESTE MATTE

 

I Quartieri erano tutto il mondo disponibile, vicoli bui che scendono verso la luce delle strade ripulite dal lusso, via Toledo, via Chiaia, il lungomare che corre fino a Castel dell’Ovo. Il sogno è quella luce da strappare di corsa, in un minuto di paura. Prima i furti nei supermercati, poi gli scippi per strada, le rapine. L’escalation è standard. Compreso il primo arresto per armi a quattordici anni, sette mesi di comunità, niente da ammettere, niente da imparare, solo la fretta di andarsene per tornare in pista. 

 

A sedici anni, quando Sasà comincia ad avere paura della paura, quando il mondo gli gira intorno e sta sempre per cadergli addosso, impara a fermarlo con il gin e il Campari, dalla mattina presto. Poi con la cocaina. «Fino a quando» racconta Striano «cerchi di fermarlo con un appiglio fisso. E l’appiglio è una pistola». Anche quella è una escalation che fa di un ragazzo un soldato: «Un certo giorno la pistola diventa la tua compagna, la tua spada. Ce l’hai sempre addosso. È l’ultima cosa che guardi prima di dormire, quando la metti sotto il cuscino. E la prima che vedi quando ti svegli». 

 

A quei tempi sulle strade dei Quartieri regnava la famiglia dei fratelli Mariano – che nel libro diventano Viviano – padroni di tutti clan, di tutti i codici di comportamento. Lui disubbidisce agli uni e agli altri: «Mi sono affiliato ai dissidenti per insofferenza, per guapperia e anche per quella catena di inciampi e buchi neri dei quali ti accorgi quando è il mondo ti è già cambiato attorno». 

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All’inizio è solo una piccola banda di ribelli. Il loro capo si chiama Cardillo, ma tutti lo chiamano Beckenbauer, stessa faccia del giocatore tedesco. Banda di scostumati. La gente storce il naso perché aggiungono disordine al disordine. La gente dice: «Sono teste matte». E Teste Matte sia. Da dieci diventano venti, poi trenta. Tutti scelti dal boss, «selezionati uno per uno dalla strada, dai campi di calcetto, nelle tifoserie, nella basi di spaccio e nei padiglioni di Poggioreale». 

 

Il primo vero atto di insubordinazione, come racconta nel libro, è mettersi in proprio nel traffico di cocaina, trattare il primo acquisto con una banda indipendente di colombiani, violare le piazze dello spaccio, incassare senza rendere conto alla catena di comando. I soldi arrivano a palate. Trecento milioni con i primi sei chili di roba. Arrivano le ragazze «che usano cocaina come cipria». Arrivano i ragazzini che si inchinano ai nuovi boss, fanno le vedette, si vogliono affiliare. Poi naturalmente, arrivano i guai. E con i guai il bivio: l’obbedienza o la guerra. 

 

Il libro è la storia di quella guerra che durerà una manciata di anni: «Ci sentivamo da soli contro il mondo». Minacce, inseguimenti, paranoia. Sganciarsi in tempo dagli appartamenti. Non fidarsi di nessuno. Contare gli amici. Smascherare il traditore. Aggiungere alle armi leggere quelle pesanti, i kalashnikov, che demoliscono tutto, il metallo, il cemento, i corpi. Uccidere per non essere uccisi. Riempirsi di cocaina e soldi: «La cocaina è il tuo scudo, prima ti difende, poi ti soffoca. I soldi sono belli solo quando li pensi. Quando li hai in tasca sono già spesi».

 

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È storia di agguati e tradimenti. Di amici che muoiono. Di feriti che «devi tornare a uccidere per non trasformarli in nemici a vita». Di notti insonni e di giornali da leggere all’alba per «ammirarsi in quelle notizie», come dopo la Pasqua di sangue del 1991, la Malapasqua, tre morti a terra sulla salita di Sant’Anna di Palazzo, raffiche di mitra e scooter in fuga per l’ennesimo regolamento di conti, quella volta sbrigato tra il fuggi fuggi dei passanti.

 

È storia di fortune dissipate ai tavoli clandestini delle bische, ai picchetti del Toto nero, di sontuosi banchetti alle feste di matrimonio per alleanze di famiglie finite in malora. Di giubbotti da tre milioni di lire e anelli da dieci. 

 

Il paesaggio è Napoli, «città bellissima e città cattiva», amata, odiata, rimpianta, «che andrebbe spazzata via e ricostruita», città corrotta, «dove ognuno si prende un morso». E il virus della camorra sta nel suo sangue, «perché ti fa credere che quella sia la via più facile, prima per mettere un piatto a tavola, poi per comprarti la tavola». 

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Il libro finisce dove ricomincia la nuova vita di Salvatore Striano. Salvato da un amore che ha resistito durante gli anni della guerra, poi quelli della latitanza in Spagna, «dove cambiavo casa ogni tre mesi e soffrivo d’insonnia, non dormivo mai». E infine quelli del carcere, tre a Madrid, cinque a Rebibbia: «Pagavo un debito che non si può pagare, così come non si possono cancellare quegli anni, il male che hai fatto, il sangue versato. Puoi solo ripensarli». 

 

E per farlo, nel carcere si è svuotato la testa, è ripartito da zero. «Ho imparato a leggere e a capire le parole più semplici come vita, sogni, dolore». 

 

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Poi sono arrivate quelle del tutto nuove del teatro, le tragedie universali di Shakespeare che finalmente hanno illuminato le sue: «Ho pianto sangue a ricordare. E ho imparato a non nascondermi più dietro le mie macerie». 

 

Ora le ha messe in fila. Ci ha impiegato nove anni di libertà, migliaia di pagine scritte, riscritte, poi tagliate. E rimontate come in un film che corre, divora, spaventa, per raccontare agli altri che una via d’uscita è possibile. Che persino la sua storia di «ultimo tra gli uomini rimasti vivi» non è senza rimedio.