DAGOREPORT – AVVISATE IL GOVERNO MELONI: I GRANDI FONDI INTERNAZIONALI SONO SULLA SOGLIA PER USCIRE…
1. I FANTASMI DELL’ OPERA
Leonetta Bentivoglio per “la Repubblica”
Questi fantasmi! Il titolo della commedia di Eduardo è in favolosa sintonia con la moltitudine di spettri che si aggira nel mondo del melodramma, dove i retroscena dell’immane lavoro collettivo sono spesso enfatici, isterici, sboccati e appunto melodrammatici, come ci conferma la parola stessa.
Se poi si parla della Scala, teatro dove i fantasmi coi quali ci si misura portano i nomi di Verdi, Toscanini e Callas, dunque nutrito da una storia angosciosamente esigente sul piano degli standard qualitativi, non è difficile che si scatenino passioni molto basse e tensioni troppo alte.
È accaduto l’altra sera, il 7 dicembre, per la Giovanna d’Arco che celebrava il rito di Sant’Ambrogio, con l’apertura di stagione del teatro, nel clima sovreccitato degli applausi e della festa. Uno dei registi, Moshe Leiser, ha insultato nella diretta streaming il direttore Riccardo Chailly, e un maligno fuorionda lo ha beccato e registrato.
Ma la voce che ci fossero bisticci e incomprensioni tra il maestro e la coppia di registi mobilitati per questa Giovanna verdiana circolava da un pezzo in teatro durante l’elettrico fervore delle prove.
Chailly è un grande e rigoroso signore della musica, uno dei pochi direttori d’orchestra inattaccabili a livello internazionale, e la sua difesa della partitura musicale da visioni registiche che considera invadenti o inopportune conta già un precedente alla Scala: per la seconda opera che dirigerà nel maggio prossimo a Milano, La Fanciulla del West di Puccini, ha rifiutato il famoso regista Graham Vick, che era annunciato nel programma già stampato, in base al progetto presentatogli dallo stesso Vick e decantato dal fiducioso sovrintendente Pereira come “un capolavoro”.
Laconico il commento di Vick («non abbiamo trovato una visione comune »), mentre la Scala sistemava al suo posto Robert Carsen, anch’egli molto accreditato come regista di lirica. A sua volta Carsen meritò tremendi attacchi dal direttore Daniel Barenboim, musicista notoriamente molto caratteriale, in occasione del Don Giovanni che inaugurò la stagione della Scala nel 2011, tanto da scoppiare in lacrime durante uno screzio rimasto celebre in teatro. E furono ardenti le discussioni tra Daniele Gatti e il regista Dmitri Tcherniakov nel montaggio della Traviata di due anni fa, coi riflettori puntati su una Violetta “moderna“, dedita all’impasto della pizza in cucina e ad altre amenità domestiche.
D’altronde le cronache del melodramma - soprattutto nell’ultima fetta di Novecento con la forte ascesa del ruolo del regista - sono strapiene di lotte tra i responsabili della messinscena e i direttori d’orchestra. Gli uni vogliosi d’intervenire, rinnovare o modificare trame giudicate obsolete, retoriche o teatralmente deboli; gli altri infastiditi e offesi da intromissioni, sconvolgimenti ambientali, azioni o posizioni dei cantanti e del coro valutate come erronee o anti-musicali. Resta leggendaria la battaglia che contrappose Herbert von Karajan, genio d’indole algida e aggressiva, con trascorsi nazisti, e un divo della regia narciso e bizzoso come Strehler.
Nel ’74 a Salisburgo litigarono violentemente per un Flauto Magico che il musicista intendeva “popolaresco” al massimo, mentre il regista lo sognava raffinato e sontuoso, e dunque, secondo Karajan, disgustosamente estetizzante. Due anni prima la testardaggine di Strehler, che non cedette alle critiche del mitico direttore d’orchestra Solti, portò alla cancellazione di un allestimento delle Nozze di Figaro a Versailles.
Sempre negli anni 70 Luca Ronconi, altra star del “teatro di regia”, si accapigliò a tal punto con il maestro tedesco Sawallisch alla Scala, per il ciclo del Ring wagneriano, da arrivare a non concludere il progetto, che infatti si fermò al Siegfried. E tanto focosamente Riccardo Muti se la prese con i coniugi Ursel e Karl Ernst Hermann a Salisburgo nel ’92, per una regia della Clemenza di Tito di Mozart verso cui il maestro espresse il suo «totale e irrimediabile disaccordo», da lasciare il festival qualche giorno prima del debutto.
Infine fu sofferta la rottura fra il regista Peter Stein e Claudio Abbado, il cui rapporto, inizialmente radioso, uscì distrutto dalle loro acri divergenze sull’allestimento del Simon Boccanegra di Verdi portato a Firenze dopo il successo di Salisburgo (ma nella ripresa fiorentina accaddero disastri fra i due). «Mai più, purtroppo, ci saremmo riconciliati», sospirò Stein nel giorno della scomparsa del maestro.
Il dilemma è senza sbocco: se i teatri, sempre più in crisi, vogliono scandali e scalpore, dunque spettacoli feroci e “di tendenza”, capaci di magnetizzare i media, i campioni del podio, soprattutto quelli di antica e solida scuola, sentono come sacri e intoccabili la sostanza e l’intento musicale dell’opera.
E c’è da aggiungere che in fondo è sempre un po’ uno smacco, per il regista, non essere il vero padrone della serata quando monta un’opera. Diceva Strehler: io sono come uno che insegna agli altri a far l’amore e poi, quando l’amore si fa per davvero, vengo costretto a dileguarmi e ad assistere senza partecipare; invece il direttore se ne sta lì, sulla vetta del podio, a tener le redini dell’amplesso.
2. GELO TRA REGISTI E DIRETTORE “QUASI NON SI PARLAVANO”
Paola Zonca per “la Repubblica”
Racconta un orchestrale che nel periodo delle prove non ci sono state scenate clamorose o discussioni accese. Tra Riccardo Chailly e Moshe Leiser, il più estroverso, irruente e fumantino della coppia di registi chiamati alla Scala per la Giovanna d’Arco (l’altro è Patrice Caurier, sempre un po’ defilato), c’è stata soprattutto una distanza raggelante, uno scontro di caratteri opposti. «Quasi non si parlavano» spiega.
«Chailly dava indicazioni ai cantanti, ai coristi, ai maestri collaboratori, senza rivolgersi direttamente ai registi. Diceva solo in modo che sentissero: qui devono cambiare. Era come se non ci fossero». In questi anni i professori ne hanno viste di tutti i colori: «Ricordiamo bene i litigi di Barenboim con Emma Dante in Carmen, o con Robert Carsen in Don Giovanni. I battibecchi c’erano, anche animati, volavano pure parole pesanti, ma poi l’accordo si trovava».
Qui invece Chailly è stato gelido sin dall’inizio, sin dalle prime prove. E in forte disaccordo sull’impostazione generale della regia, sulla sua realizzazione in palcoscenico e sulle posizioni di cantanti e coristi. Rispetto ad alcune soluzioni proposte, poi, l’insofferenza del direttore era palese, anche se educata. «Ad esempio i registi volevano far sdraiare sul letto il tenore (Francesco Meli,ndr) col sedere in alto bello esposto» continua l’orchestrale. «Abbiamo riso sotto i baffi quando Chailly ha detto: “No, per favore, il lato B in mostra per tutta la scena no”. Come dargli torto?».
Non si può nemmeno sostenere che quella della coppia franco-belga sia stata una regia irrispettosa della musica o del libretto, tanto che il pubblico della Prima, solitamente piuttosto tradizionalista, non l’ha fischiata, ma certo il Maestro non ha gradito alcune trovate un po’ kitsch. «Come nel caso della scena dei diavoli che tentano Giovanna. Inizialmente i mimi dovevano assumere pose un po’ troppo spinte, erotiche. Chailly non era d’accordo e li ha costretti a cambiare. Una volta l’ha pure detto chiaro: “Si è capito che questi registi non mi piacciono”...».
Qualcuno si spinge anche a sostenere che la sostituzione all’ultimo momento di Carlos Álvarez con Devid Cecconi abbia giovato allo spettacolo: «A un certo punto era previsto che il baritono (nel ruolo di Giacomo, ndr) facesse una sequenza di segni della croce che quasi gli impedivano di cantare. Álvarez seguiva le indicazioni, tanto alla generale e alla Primina dei giovani doveva solo stare in scena, perché al suo posto le note le faceva il sostituto. Cecconi non aveva provato e ha evitato di strafare. Tutto sommato, meglio così».
Molte le divergenze anche su come posizionare in scena il coro: «I registi ci volevano piazzare molto indietro» racconta uno dei coristi, applauditissimi con il direttore Bruno Casoni. «Abbiamo chiesto loro di avanzare per vedere meglio il direttore e sentire l’orchestra, e Chailly ci ha appoggiati. Durante una prova d’insieme ci ha detto: “Signori, venite avanti” e subito il regista ha urlato dal retro: “Stop!”. A quel punto Chailly ha preso il microfono ed è sbottato: “Chi ha detto stop? E perché?”».
Contrasti continui mai davvero chiariti (si dice che Leiser fosse infastidito dalla presenza costante alle prove della moglie di Chailly, Gabriella, e che le abbia rivolto anche qualche battuta ironica), che sono esplosi poi alla serata d’inaugurazione. Chi era presente rivela che i due registi, a spettacolo finito, dopo la prima uscita accolta con applausi (in verità un po’ più tiepidi di quelli rivolti al resto del cast) si aspettavano di tornare in proscenio, «ma il direttore del palcoscenico li ha fermati: “Questo lo decidiamo io e il Maestro, non voi!”».
E pare che, appena prima dell’ormai noto doppio insulto, Leiser si sia avvicinato a Chailly per stringergli la mano, ma che il maestro abbia fatto finta di nulla. Come a sottolineare: con voi due non voglio avere più nulla a che fare.
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