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Paolo Isotta per il “Corriere della Sera”
Questo è l’articolo completo sulla recita inaugurale del 7 dicembre. Chi avesse avuto la bontà di leggere le prime impressioni, pubblicate ieri, constaterà che questo le ricalca in parte alla lettera: non vedo perché parafrasare quanto affermato. Ed esordisco col dire che, nei miei quarant’anni di 7 dicembre compiuti quest’anno, ho ascoltato tre volte il Fidelio alla Scala: sotto la direzione di Karl Böhm, di Leonard Bernstein e di Riccardo Muti.
A leggere i giornali, questa del 2014 pare la prima volta che l’Opera di Beethoven sia stata data a Milano; il mio motto è nihil admirari : e tuttavia domando ai lettori che cosa pensano io pensi degli applausi sperticati a Barenboim avendo ascoltato questi Sommi. Onde il mio articolo si potrebbe intitolare Gli errori di grammatica del maestro Barenboim .
Il primo errore di grammatica è stato quello di aver egli aperto l’Opera con l’ Ouverture Leonora n. 2 , che ne esaurisce per la stessa sua monumentalità compositiva del tutto il percorso drammatico e che Beethoven aveva espunta: egli la sostituisce invece all’Ouverture in Mi maggiore da Beethoven per la versione finale composta, sintetica e atta a introdurre in medias res . Il Barenboim crede di saperla più lunga dell’Autore; ed ecco perché la mezza cultura è peggiore della completa ignoranza.
Il secondo è stato quello di aver scelto la regia di una Deborah Warner. Fino a metà del II atto essa mi pareva povera per avvilire in una sporca quotidianità la terribilità tragica; ma quando all’ultimo quadro la fabbrica dismessa viene occupata da un popolo di straccioni agitanti stracci rossi, ci si rende conto che oggi la migliore regia straniera non vale la peggiore italiana.
L’incredibile supponenza di costei vede il finale quale un’affermazione del «quarto Stato»: l’Opera ha le sue basi storiche nella condanna del Terrore francese, un regime tirannico e nemico dell’uomo come in seguito solo quello di Pol-pot. Ma a dipingere la superficialità di questa donna basterebbe ciò: la marcia militare del primo atto, secca e ingessata com’è, dipinge soldati quasi disumanizzati nell’esercizio: costei li fa apparire umani miliziani che giuocano a pallavolo.
Per il resto Barenboim dirige con correttezza, tempi troppo lenti quando non improvvisamente velocissimi e concerta malissimo il coro. L’introduzione accordale al coro dei prigionieri è dal suono così rarefatto che l’orecchio non può cogliere la figuralista dissonanza armonica; quando le voci entrano il tipo di suono prescelto è al contrario così corposo da distruggere la poesia del brano.
Il suo terzo errore di grammatica è stato dunque il come ha diretto; il quarto nella selezione della compagnia di canto. Egli ha prescelto quale Leonora una Anja Kampe che un tempo si sarebbe detto al di sotto di una comprimaria: sconosce la grande declamazione tragica (il supremo Recitativo Abscheulicher, wo eilst du hin l’ha fatto in modo imbarazzante), ha una vocina stridula all’acuto, inesistente al centro, ventrale al grave.
Ridicolo è il Pizarro di Falk Struckmann, che parla e non canta e la voce gli balla il tango. Klaus Florian Vogt, Florestano, è un tenore caratterista, dalla vocina bianca, adatto per Mime, invece che un tenore eroico: e Florestano è fratello maggiore sia di Manrico che di Tristano. Modesto il don Fernando di Peter Mattei perché la mezza cultura di chi lo guida crede che il Recitativo del messo regale sia una piccola cosa e non la chiave dell’Opera. Ottimi il Rocco di Kwangchul Youn, la Marcellina di Mojca Erdmann, il Jaquino di Florian Hoffmann, dotato di peso tenorile superiore a quello di Florestano: le sole scelte giuste del maestro Barenboim.
L’ultima volta che il Fidelio si fece alla Scala sul programma venne pubblicata la conferenza di Gino Marinuzzi del 1926, la cosa più bella che sul capolavoro sia mai stata scritta; purtroppo è stata espunta per esser malamente sostituita da un saggio tedesco che non vale Marinuzzi, Ronga, Mila, Buscaroli ed è di tale qualità da non valere persino me.
Il ministro Franceschini dichiara giustamente che le manifestazioni di dissenso dei cosiddetti «centri sociali» volte a disturbare la recita vanno contro l’interesse di Milano. Io credo che l’interesse di Milano verrebbe ancor meglio fatto se le imponenti forze dell’ordine impiegate a difendere la «prima» della Scala e la fila di auto blu che dal teatro arrivava fino a piazza Cavour (impressionante il foyer occupato per intero, durante la recita, da autisti e guardaspalle…) venissero adoperate a tutela degl’inquilini delle case popolari minacciati nella sopravvivenza dagli stessi criminali.
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