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Gli entusiasti dell’arte sostengono che l’arte contemporanea di lusso sia un segno della nostra cultura che durerà nel tempo. Forse è così, ma forse noi saremo morti prima ancora di capire chi ha ragione. Una cosa è certa: da un punto di vista commerciale le opere contemporanee sono il trofeo dell’1%, e questi pochi compratori straricchi sanno cosa comprano. O almeno così ha deciso la Corte Suprema di New York.
L’investitore miliardario Ronald Perelman aveva fatto causa a Larry Gagosian (proprietario dell’eponima catena di gallerie) per il “Popeye” non finito di Jeff Koons, pagato nel 2010 ben 4 milioni di dollari. Perelman accusava l’amico e gallerista di aver approfittato della sua fiducia, di aver mentito sul prezzo reale dell’opera e di manipolare i prezzi di mercato.
Il giudice però gli ha dato torto, perché in fondo si sa che dei galleristi non ci si deve fidare. Questi sofisticati querelanti non possono dimostrare di aver tenuto una condotta diligente in quanto, ad esempio, non è stato chiesto un documento ufficiale sui dati del mercato.
Il mercato dell’arte è notoriamente opaco, manipolato in un modo che sarebbe ritenuto illegale in altri ambiti. Capita soprattutto quando un’opera viene venduta per la prima volta: i galleristi tengono segreto il prezzo, vietano di rivenderla senza il loro placet, minacciano di mettere sulla lista nera i collezionisti che non seguono le regole.
larry gagosian ronald perelman popeye braccio di ferro
A volte sono gli stessi galleristi a far aumentare i prezzi dei loro artisti alle aste. Dicono di farlo per garantire la carriera dei loro protetti, ma hanno interessi e incentivi personali. Il valore di un’opera è questione di gusto, è soggettivo. E’ l’industria a stabilirlo. Sono i galleristi che investono per costruire il marchio di un artista. Siccome però i collezionisti sono colti e benestanti, possono difendersi da soli da queste trame.
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