
COME AL SOLITO, I GIORNALISTI ITALIANI SI FERMANO AI TITOLI: L’ARTICOLONE DEL “TIMES” SUI LEADER…
Denise Pardo per “la Repubblica”
La metodologia è da dizionario, la classificazione alfabetica. Ma Il demone della Frivolezza, di Giuseppe Scaraffia, pubblicato da Sellerio, è una raccolta dotta e capricciosa della fascinazione subita da grandi intellettuali e mitici artisti, proprio come dai comuni mortali, per la futilità e per la sua capacità consolatoria.
«Nell’ineluttabile eclissi dell’ideologia, il pensiero ha bisogno, per non smarrirsi nel vuoto, di appoggiarsi all’unica concretezza rimasta, quella degli oggetti», scrive l’autore.
SCARAFFIA IL DEMONE DELLA FRIVOLEZZA
Anche se poi Scaraffia sceglie di mescolare le cose inanimate alle più umane animazioni — i sentimenti, i tradimenti, il sorriso, alle azioni più eccitanti — sciare, sparire, flirtare — e anche a città, ruoli e categorie. Svelando gusti e ossessioni inaspettate in un’aristocrazia culturale molto cedevole alle tentazioni terrene e mondane, e non solo dedita a quelle dello spirito e dell’anima, come si è sempre pensato.
In una ricchezza di aneddotica quasi compulsiva e provocatoria, certo l’autore lo sa e ne gode nella prefazione, il libro colleziona storie, frasi, stramberie colte e costose, in un’analisi sulla coscienza del possesso della cultura materiale.
Voltaire e Joyce, Yourcenar e Wilde, Bizet e George Sand, Max Jacob e Victor Hugo, Baudelaire e Beckett, Gogol e Churchill, D’Annunzio e Marlene Dietrich, Hemingway e Malraux, per dirne solo alcuni, si susseguono nelle citazioni e mostrano le loro demoniache frivolezze e le passioni snob, maniacali, anche da parvenu.
Il demone della frivolezza non si fa scrupoli, sarebbe strano il contrario, di alternare l’elenco delle sensazioni nei confronti di New York, «un giardino di pietra » (secondo Cocteau), all’emozione per le corna nelle sue declinazioni, non c’è solo il Cocu magnifique, c’è anche il Cornuto ravveduto.
O di passare dall’interpretazione di Diderot della vestaglia — macché Enciclopedia! — che «può sottrarsi agli imperativi del lusso e del consumo sulle ali dei sentimenti » al benessere che offrono i Grand Hotel. Per Leo Longanesi, ad esempio, Curzio Malaparte «amava la mamma e i grandi alberghi».
Dopo a come anello e a come assenzio, arriva anche la voce a come autisti: c’è Odilon, quello di Proust — poteva mai mancare Proust? — marito della celebre cameriera Céleste, proprietario di una macchina impresentabile. E poi gli chauffeur che al Collège de France occupano le prime file per tenere il posto alle dame dell’alta società invaghite delle lezioni di Henry Bergson.
«Il rumore di fondo del passato e la litania della nostra epoca» seguono il filo logico dell’ordine alfabetico e quello illogico del superfluo. Così si scoprono le dichiarazioni d’amore, i Capodanni, il cinema e il cappello, il doppiopetto e la pistola, la Legion d’Onore e il tè, le vestizioni e le categorie, la fellatio e le buone maniere. In tutto più di duecento pagine colme di usi, riti e costumi d’autore molto confortanti quando si apprende che al godimento della frivolezza cedono anche gli immortali.
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