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Massimo Fini per il “Fatto quotidiano”
Psicanalisi del fan. Quando ero un giovane giornalista, ma già abbastanza affermato, mi meravigliavo che i miei maggiori, quelli che almeno conoscevo io, Giorgio Bocca, Oreste Del Buono, Indro Montanelli, si rifiutassero categoricamente di rispondere alle lettere personali dei lettori (non quelle che si scrivono ai giornali) e tantomeno di ricevere fan o presunti tali. Mi sembrava una manifestazione di chiusura, un segno di indifferenza e di grettezza, soprattutto nei confronti dei giovani.
Negli anni Ottanta, al Giorno di Zucconi e Magnaschi, scrivevo al ritmo con cui lo fa oggi, al meglio, Marco Travaglio, e ricevevo circa una cinquantina di lettere alla settimana. Cercavo di rispondere a tutte, e scartando solo quelle chiaramente deliranti. Ho passato quasi tutti i pomeriggi delle mie domeniche, facendo infuriare la mia fidanzata, in questa occupazione.
Ma alla fine ho dovuto riconoscere che avevano ragione Bocca and company. Un lettore ti scrive qualcosa di interessante, di intelligente e tu rispondi, non con semplici formule di cortesia (“La ringrazio”, “mi fa piacere avere un lettore attento come lei”) ma sulle sue argomentazioni sviluppandone altre. Lui ti riscrive e tu non rispondi più.
E il lettore s’incazza. Lo prende come un segno di superbia. Non capisce che non puoi tenere una corrispondenza continuativa con tutti quelli che ti scrivono, anche cose profonde e da approfondire, perché altrimenti non solo non avresti più il tempo di lavorare ma nemmeno di vivere. Ed ecco che uno che ti ammirava prende a odiarti.
Peggio va con i fan o presunti tali, che desiderano incontrarti. I miei sono sempre stati soprattutto dei giovani, ragazzi e, in misura minore, ragazze. Per molti anni li ho ricevuti a casa mia. Negli ultimi tempi le ragazze solo al bar di sotto. Per precauzione. Basta che una dica che ci hai provato e, parola contro parola, sei fritto. Ma anche questo è uno sbaglio. Non c'è quasi fan, o presunto tale, che alla fine non tiri fuori da sotto i panni un suo scritto, un romanzo, un saggio, che considera ovviamente fondamentale.
oreste del buono FOTO ADRIANO ALECCHI
Poi cominciano a tempestarti di telefonate (io ho – avevo – anche la sbadataggine di dargli il mio numero di telefono): “L’ha letto? Che gliene pare?”. Siccome tu non l’hai letto, perché non hai tempo, perché non sei un editor (del resto nemmeno gli editori – con l’eccezione di Cesare De Michelis, il patron della Marsilio, uno degli uomini più colti d’Italia insieme a Luciano Canfora – leggono più nulla, se non su raccomandazione degli amici degli amici) passano direttamente dall’adorazione all’insulto. Ma non è questo che mi colpisce di più.
Questi ragazzi e ragazze per due ore parlano solo “di sé fra sé e sé” come “il finto pittore e il finto scrittore” della canzoncina di Giorgio Gaber, Trani a gogò”. Non hanno alcuna vera curiosità per te, per la tua persona, per la tua vita e nemmeno per la tua biblioteca (una volta è venuto un giovane di 24 anni che si è gettato, come un affamato, sui miei libri, discorrendo con cognizione di causa di Camus, di Sartre, di Baudelaire, di Rimbaud, di Lautrémont, di Céline, di Kafka, di Schopenhauer, naturalmente di Nietzsche, di Parmenide, di Democrito, di Eraclito, e ho capito che era un ragazzo totalmente fuori dal suo tempo, che avrebbe avuto una vita difficile). E allora perché vogliono incontrarti?
Perché vogliono constatare di persona che, per quanto tu sia un nome più o meno famoso, sei un poveraccio come tutti gli altri, un poveraccio come loro, alleviando con ciò le proprie frustrazioni. Vogliono uccidere in qualche modo l’immagine che si son fatta di te. Io la chiamo “la sindrome John Lennon”.
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