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Marco Giusti per Dagospia
"Ana Araba" di Amos Gitai
A un certo punto, quando una delle concentratissime protagoniste inizia a raccogliere il cicorione come in un film di Alberto Sordi tra i temerari che avevano affrontato il piano sequenza di 85 minuti di "Ana Arabia" di Amos Gitai, si deve essere diffuso il panico e in una trentina avevano abbandonato la sala.
Vero che la protagonista della storia e' una superbomba sexy israeliana, certa Yuva Scharf, che da sola avrebbe potuto mantenere viva l'attenzione del pubblico, ma il film si faceva un po' insostenibile per lo spettatore medio. I cinefili erano divisi. O capolavoro o palla micidiale.
Certo, il set trovato da Gitai per il suo piano sequenza, che deve raccontare di una zona vicina a Jaffa dove vivono arabi e ebrei che si sono macchiati di storie d'amore miste, e' strepitoso. E strepitoso e' il lavoro dell'operatore che deve seguire la bella giornalista alla ricerca delle storie loro e dei loro figli e parenti. Non sbaglia mai un movimento, a parte un'inclinatura quando un pollo gli attraversa inavvertitamente il campo.
Ma il film, alla fine, e' un po' troppo legato al virtuosismo tecnico per piacerci davvero e la non concentrazione era tanta. Gitai e' una vecchia tassa da festival. Un autore che ogni anno doveva esplodere e non esplodeva mai. "Proprio l'anno che Amos ha fatto un buon film Bernardo non l'ha visto", ricordo che disse il mio amico Marco Melani tanti anni fa che cercava di inserire Gitai nel cerchio magico bertolucciano.
Magari quest'anno ci casca. Io al secondo passaggio della raccolta del cicorione, dopo un'ora di film, ho gettato la spugna. Ottime intenzioni pacifiste sul vivere insieme ebrei e palestinesi, ottimo lavoro tecnico, bonissima protagonista, ma stavo crollando sulla sedia. Possibile premio per la gallina bastarda.
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