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Nessuno si salva da solo di Sergio Castellitto
Marco Giusti per Dagospia
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“Mi piacciono le storie sospese, le persone che si cercano”. Eccoci. “Ho paura della meningite, dei pedofili, del cancro al seno. Ho paura di tutto”. Aiuto! “Vorresti avere più di un cazzo?” - “Sì, due e usarli contemporaneamente con te”. Perbacco. “Quella di stamattina è stato il miglior pompino di novembre”. Perfetto. Benvenuti nel mondo di Margaret Mazzantini e di Sergio Castellitto.
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Che ci/vi piacciano o meno, fanno davvero sul serio e in questo Nessuno si salva da solo, diretto da Sergio Castellitto e tratto dall’omonimo romanzo di Margaret Mazzantini, pubblicato da Mondadori anche se in questi giorni lei è passata a Feltrinelli (e nel film si capisce anche troppo), puntano davvero in alto.
Puntano cioè alla generazione degli oggi trenta-quarantenni cresciuti tra la fine del Muro di Berlino e l’11 settembre, come ha dichiarato il regista, o, come la definisce uno sfigatissimo regista barbuto nel film, che poi farà carriera con tanto di anteprima al Festival di Roma edizione Muller, “La generazione della patacca, del remake”.
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Almeno questo film, lo riconosciamo, non è un remake e si prende le sue responsabilità nel descrivere ambizioni, sogni e storie di questa sperdutissima generazione romanocentrica di ragazzi cresciuti col sogno del cinema che si devono confrontare con la realtà, con l’amore, coi figli che crescono, con le passioni, coi lavori che non arrivano.
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Nel bel mezzo di una scopata, a chiappe scoperte, l’aspirante romanziere Gaetano detto Gae, passa sopra il corpo della sua amata Delia, anche pesantemente, per rispondere al cellulare all’amico che gli ha procurato una sceneggiatura. “Devo aprire la partita Iva”, dice distrattamente a lei mentre cerca di tornare a scopare. E lei capisce che, forse, è finita.
Non si fa così. Mettiamoci anche che quando muore il criceto amato dai figlioletti, e buttato via come un rifiuto dal Gaetano detto Gae, lei aveva dovuto pure acconsentire a una mezza-pecorina che non era stato il massimo della vita. Come non lo è la doppia dichiarazione, prima dell’arrivo del film in sala, del matrimonio Scamarcio-Golino in Puglia dopo dieci anni di vita insieme e dello spostamento da Mondadori a Feltrinelli della Mazzantini (ma questo lo avevo già detto, no?). Eppure…
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Pieno in egual misura sia di buone idee che di battute insopportabili, come “Devi cambiare profumo. Dopo un lutto si deve sempre cambiare profumo”, detta dall’amica a Delia appena uscita da un aborto, tutto il film vive sul corpo a corpo che mette in scena Castellitto con gran vigore costringendo i suoi attori a buttarsi totalmente nella mischia.
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E vive, appunto, della loro recitazione ultrarealistica e davvero sentita. Dove mettono in gioco loro stessi con grande generosità. Riccardo Scamarcio è per tutte e tutti ancora lo Step di mocciana memoria, idolo lontano proprio della generazione che sta descrivendo, mentre Jasmine Trinca è ancora la musa di Nanni Moretti e Silvio Muccino, la regista lesbica (perché lesbica, poi?) che voleva fare un film su Berlusconi in pieno berlusconismo e la ragazzina borghese che fa impazzire il fidanzatino di tutte con la zeppola.
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E insomma Scamarcio e Trinca, ancora così belli e così freschi, ma come marchiati da un “vizio di forma” pynchoniano giovanile oltre che dai precedenti film fatti assieme, penso a Il grande sogno di Michele Placido, o a Miele, interpretato dalla sola Trinca, ma coprodotto da Golino-Scamarcio-Prestinieri, quasi una famiglia, si portano dietro tutto questo nel descrivere il loro amore sentito, dieci anni di vita italiana, anche se poi riescono magicamente, forse grazie a Castellitto, forse grazie a una loro forza misteriosa, a farci credere sul serio che sono davvero due ragazzi che si amano e si ameranno per sempre.
E io ci rimango di stucco quando lui la lecca dentro la bocca coi denti marci, poi arriverà Massimo Ciavarro dentista di famiglia, e piango in tutto il finale strappacore, malgrado il fluire di battute tremende. “Dimmelo che non mi hai mai amato!” – “No, non ce la faccio!” – “Dimmelo!”. E malgrado la scolatura del pessimo champagne offerto da Roberto Vecchioni e Angela Molina ai ragazzi.
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E’ grazie alla loro presenza, ai loro corpi, al loro lasciarsi scivolare addosso questi ultimi anni di miele e grandi sogni del cinema italiano diciamo d’autore, ma anche no, che il film prende una sua forma al di là dei dialoghi e delle situazioni. Che pure puntano a raccontare proprio la sfiga del nostro cinema e di chi lo fa come fosse sfiga di qualcun altro e non di tutto questo cinema.
SERGIO CASTELLITTO MARGARETH MAZZANTINI - Copyright Pizzi
Le riunioni assurde il sabato mattino col regista che vuole capire come procederanno con la sceneggiatura e i bambini che aspettano il padre per andare al mare. Le battute sul “fondo di garanzia”, la violenza delle donne rivolte verso le madri, “Ha bisogno di un bersaglio e io sono un poligono perfetto”. Lei che è un’anoressica coi denti marci pronta a ricadere nella malattia, con madre un po’ mignotta, ma simpatica, un’ottima Anna Galiena.
Lui, coi genitori che abitano a Ostia, un Massimo Bonetti ex-sindacalista e la mamma, una Eliana Miglio un po’ svampita e cannarola, che è uno scrittore che si deve arrangiare con le soap o con la schifosissima tv, al punto che lei deciderà di abortire vedendolo entrare in uno studio alla “Amici”. Dura, questa, eh?
Eppure questa sfiga, la casetta al Villaggio Olimpico, vicino all’Auditorium dell’era Muller (con Monda sarà un’altra cosa?), il computer vicino al letto, la visita all’Ikea dove il bambino più piccolo si perde il ciuccio, alla fine non è irreale o mal descritto. (Un po’) ci crediamo. E ci piace anche l’idea di lui che le fa mangiare le castagnole con la crema e la bacia con tutta la crema in bocca, “Grazie di amarmi”, il continuo rapporto fra amore e cibo (sì, magari è un po’ banale, ma funziona), il trionfo del carboidrato che apre al trionfo dell’amore e viceversa.
LUCIO DALLA ALLO STADIO PER IL BOLOGNA
Un po’ meno funziona l’idea della vecchia coppia, Roberto Vecchioni e Angela Molina (ci dovevano essere in un primo tempo Tomas Milian e Ursula Andress), che assistono alla loro cena come fossero un loro doppio. Mentre è notevolissima Marina Rocco come animatrice di feste per bambini nonché amante bionda un po’ svampita di lui, gran corpo e gran sedere, però, o Cosimo Messeri come buffo co-sceneggiatore, o Massimo Ciavarro come dentista-velista amico di famiglia di lei.
Certo, il finale con “La sera dei miracoli” di Lucio Dalla è un colpo bassissimo, andrebbe vietato per legge mettere Dalla nei film italiani d’autore, per non parlare di Tom Waits e Leonard Cohen che invecchiano di almeno vent’anni il film, ma il cuore della storia, cioè il rapporto tra la Delia anoressica e il bel Gaetano tamarro che si amano, fanno figli, si lasciano, ma forse potrebbero ritornare perché lei è tornata a mangiare, ecco, quello mi piace.
Al di là delle battute tremende, dei pompini, di quel titolo, però… Ve l’ho già detto che la Mazzantini è passata da Mondadori a Feltrinelli, sì? In sala dal 6 marzo.
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