MELANIA RIZZOLI
Melania Rizzoli per Libero Quotidiano
«Mi hai spezzato il cuore» è la frase che viene scritta in tutte le lingue, milioni di volte ogni giorno, nel mondo. Perché gli amori, si sa, vanno e vengono, iniziano e finiscono, e la perdita di un amore è sempre dolorosa, fa soffrire anche a lungo, e a volte fa "star male da morire", ma poi, col passare del tempo, in genere ci si rassegna e si riprende a vivere. E ad amare.
Non sempre, però. Perché oggi sappiamo con certezza che a volte, per amore, si può davvero morire.
Uno studio molto accurato, durato oltre dieci anni, pubblicato dalla Aarhus University in Danimarca, ha evidenziato, scientificamente e strumentalmente, che perdere la persona più cara può davvero "spezzare il cuore".
INFARTO
La ricerca ha dimostrato che nei successivi 12 mesi dalla morte di un amore o dalla morte fisica di un partner, (il cui lutto, nelle due situazioni, è emotivamente equiparato), le persone lasciate o sopravvissute sono sottoposte a un 40 per cento in più di probabilità di sviluppare la "fibrillazione atriale", una delle più temibili aritmie cardiache, che, se persiste e se non curata, aumenta in modo pericoloso la probabilità di ictus, di infarto e di insufficienza cardiaca, con conseguenze letali.
Inoltre, il rischio del battito cardiaco irregolare, paradossalmente, è stato rilevato maggiore nelle persone più giovani, in quelle sentimentalmente più coinvolte, più disperate e più inconsolabili, soprattutto quando la rottura o la perdita sono arrivate improvvise o inaspettate. Il pericolo di arresto cardiaco risulta al massimo dall' ottavo al quattordicesimo giorno, per poi gradualmente iniziare a scendere nelle settimane successive, fino al dodicesimo mese, in cui raggiunge lo stesso livello di rischio di chi non ha subìto una perdita del genere.
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I dati riportati dal gruppo di ricercatori danesi sono stati rilevati su circa 90mila pazienti con diagnosi di fibrillazione atriale, ed in oltre un terzo di questi, cioè in poco più di 20mila cuori infranti, non è stato possibile in nessun modo evidenziare alcuna causa elettrica cardiaca, metabolica od enzimatica, che potesse giustificare l' innesco dell' aritmia fatale, ma è stato certificato che tutti loro avevano una cosa in comune: erano tutti cardiologicamente fibrillanti per aver perso in modo definitivo il proprio partner ed il suo amore.
RICERCHE MEDICHE La sofferenza d' amore, che si traduce in "sofferenza del cuore", era già stata descritta e pubblicata sul New England Journal of Medicine lo scorso anno, e questa sindrome, classificata tra le "cardiomiopatie da stress", è stata definita "sindrome del cuore spezzato", certificata su 1.750 soggetti che avevano subìto lo stress emotivo acuto, e mentre per anni era stata considerata una malattia benigna, ora è affrontata come una patologia cardiaca potenzialmente pericolosa, poiché associata a morbilitá e mortalità pari al 36% dei soggetti esaminati, senza distinzione di età e di sesso.
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Tutti questi pazienti, che avevano vissuto una drammatica perdita entro le due settimane precedenti, sono stati infatti monitorati 24ore su 24, ed i loro dati sono stati confrontati con le variazioni della frequenza del battito cardiaco, con risultati clamorosi e preoccupanti in coloro che affrontavano la vedovanza o l' abbandono del proprio partner in modo drammatico, e sono stati seguiti per sei mesi, periodo dopo il quale si inizia ad avere un calo significativo dell' acuzie emotiva.
Ma se il battito cardiaco torna ad uniformarsi ai valori normali anche quando le cicatrici del muscolo non sono guarite, il livello di rischio resta fissato al 26,3%, una percentuale definita 'conseguenza del cordoglio', dalla quale emerge con chiarezza la maggiore reattività e fragilità del muscolo cardiaco rispetto alla mente.
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Il cuore in realtà non si spezza davvero, come dice il luogo comune, ma nelle sue fibre muscolari si innescano una serie di meccanismi avversi, enzimatici, neurologici, vagali e del circuito elettrico cardiaco, che in alcuni casi diventano irreversibili e possono scatenare la crisi cardiaca che porta al decesso del paziente fibrillante. Per carenza acuta non di potassio o di ossigeno, ma di un elemento vitale chiamato amore.
Cioè il sentimento doloroso e oppressivo, che insorge in conseguenza della morte del proprio partner, o dalla perdita del suo amore, coincide con l' avvio di episodi di aritmie cardiache che si aggravano con l' aumentare della sofferenza dell' anima,che diventano resistenti ai farmaci,e che a volte possono avere conseguenze anche letali.
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CAUSE FATALI La maggior parte delle aritmie cardiache in genere sono innocue, ma quando insorgono presentando caratteristiche insolite, come tachicardia o bradicardia, palpitazioni ed oppressione toracica non giustificate da patologie evidenti, bisogna preoccuparsi, perché il cuore può andare in carenza di ossigeno, può fibrillare e perdere dunque la sua energia pulsante e contrattile, fino ad arrestarsi per sempre.
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«D' amore non si muore, e non mi so spiegare perché io muoio per te» cantava Massimo Ranieri in una delle sue melodie più belle, descrivendo in poche parole la sensazione straziante di morte imminente, quella che si avverte dolorosa e improvvisa dopo la perdita di un amore importante e coinvolgente, della quale non ci si riesce a liberare, e alla quale non si riesce a porre rimedio.
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Insomma, oggi la scienza ci dice che si può davvero morire di crepacuore per amore, e che una rottura traumatica, uno shock devastante o una perdita definitiva possono essere cause emotivamente fatali per un cuore innamorato.
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E chissà se tra le 1.200 crisi cardiache che si sono registrate in Italia in questi giorni, e attribuite al caldo rovente di questo mese, non ce ne sia una percentuale significativa e non diagnosticata, da riferire alla "sindrome del cuore spezzato", agli amori perduti e finiti per sempre, che provocano una aritmia incontrollata del cuore ed un vuoto profondo dell' anima, che nessuna medicina moderna è in grado di curare e di guarire.
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