Francesco Persili per Dagospia
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“Ma chi cazzo sei? Io ti spacco la faccia”. Sinisa Mihajlovic fulmina quell'uomo che lo rincorre gridando: “Ehi pezzo di merda, io ti faccio finire la carriera”. Solo che quell’uomo è Zeljko Raznatovic, meglio noto come la Tigre Arkan, capo degli ultrà della Stella Rossa e criminale di guerra serbo. Tutto era nato per un’entrata killer di "Miha" su Stojkovic.
La storia della loro controversa amicizia viene ricostruita nell’autobiografia che Sinisa ha scritto con Andrea Di Caro (Solferino). Dopo quel primo faccia a faccia ne seguiranno altri: “Nel periodo in cui sono stato a Belgrado, alla Stella Rossa, lo avrò visto almeno 200 giorni all’anno. Solo calcio, con lui non parlavo mai di politica”.
C’è un filo rosso che lega il Sinisa di ieri al Mihajlovic di oggi. È il coraggio di schierarsi e di vivere con coerenza prendendo posizioni scomode, azzardate, divisive come quando decise di fare un necrologio per Arkan. “Me lo rinfacciano da 20 anni ma non ho mai rinnegato quella scelta. Non lo feci per il militare Arkan. Lo feci per Zeljko. Possono i due piani rimanere separati? Non lo so. Allo stesso modo ripeto che lo striscione in suo onore comparso nella curva della Lazio non porta la mia firma”
sinisa mihajlovic arkan
Oltre cento esponenti del mondo della politica e dell'associazionismo dell'Emilia-Romagna gli hanno inviato una lettera per chiedergli di dissociarsi dai criminali di guerra come la Tigre Arkan. Mihajlovic non ha risposto ufficialmente ma il suo pensiero emerge con chiarezza nelle pagine del libro:
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“Non ho mai difeso la vita violenta di Arkan e le nefandezze di cui si è macchiato guidando le sue Tigri. I suoi crimini efferati restano. Sono orribili. E li condanno. Ma Zeljko era un un mio amico e mi voleva bene. Grazie a lui ho salvato la vita di mio zio e sono potuto rientrare a Borovo per vedere la mia casa distrutta. La guerra nella ex Jugoslavia ha tanti colpevoli. In una guerra civile non esistono buoni e cattivi. Non c’è il bianco e il nero. Il colore predominante è il rosso. Del sangue degli innocenti”.
Cosa sia stato quel conflitto fratricida viene narrato con dolore e sofferenza. Lo zio che vuole “scannare” il padre, l’amico che si presenta a casa dei genitori di Miha e intima loro di abbandonare tutto. Il giorno dopo torna e si mette a sparare sui muri, addosso alle foto di Sinisa, prima di distruggere tutto. Qualche anno dopo, a guerra finita l’amico incontra Mihajlovic e gli spiega che quello era l’unico modo per evitare che i suoi genitori fossero uccisi.
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Tra le vittime della guerra c’è anche una delle nazionali più forti della storia. Erano i brasiliani d’Europa. Geniali ma incostanti. Tra tutti i talenti, da Savicevic a Boban, da Stojkovic a Boksic, Miha sceglie Prosinecki, il compagno più forte insieme a Totti con cui ha giocato. Una volta con una finta mandò a vuoto l’avversario che si ruppe il crociato.
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Un uomo in battaglia, Sinisa. Gli hanno contestato il carattere. Ma chi ha carattere, ha un brutto carattere, Pertini dixit. “Ho sentito su di me mille giudizi, spesso superficiali”. Lo hanno definito “rambesco” (un complimento) e gli hanno dato del fascista: “L’accusa più stupida. Io che sono nato sotto Tito! Nazionalista semmai, ma non fascista. Non ero il guerrafondaio e machista che molti si divertivano a dipingere anni fa e non sono l’eroe che ora a molti piace raccontare dopo la mia lotta alla malattia”.
Mihajlovic ha deciso di raccontare direttamente dal letto d'ospedale la partita più importante della sua vita contro la leucemia. La diagnosi, la telefonata alla moglie, le parole di Walter Sabatini (“Resta il nostro allenatore. Preferisco lui al 20-30% che qualsiasi altro tecnico”). E poi il ricovero con la falsa identità di Cgikjltfr Drnovsk, 69enne senza fissa dimora (“Trovavo ironico che il senza fissa dimora lo avessero affibbiato a me, che in ogni stadio ero accolto dal coro di zingaro di merda”). Il ritorno in panchina e alla vita.
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In ospedale ha avuto il modo di finire di leggere “Open”. Agassi odiava il tennis con tutte le sue forze? Sinisa invece ama il calcio da morire. E’ un uomo d’amore, per usare una categoria cara a Luciano De Crescenzo, e d’onore. E’ uno di quelli che rispetta la parola data, le promesse, i valori con cui è cresciuto. Una rarità in un mondo di quaquaraquà. Non fa sconti ai ragazzotti che con mezza partita si sentono già arrivati. "Tanta forma, poca sostanza. Più che calciatori li definisco 'calciattori'. Sono quelli che dopo uno scatto, se perdono il pallone, invece di rientrare, si aggiustano i capelli".
Lui fa parte di un’altra generazione. Quella di chi sa che fatica e divertimento possono andare insieme. “Mi hanno fatto godere ogni tiro, ogni partita, ogni campionato e ognuna delle milioni di volte in cui ho preparato un calcio da fermo. Oggi un difensore centrale come ero io non esiste”.
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Nella stagione in cui vinse lo scudetto con la Lazio realizzò 13 reti. Guardiola gli confessò: “Purtroppo abbiamo giocato nello stesso periodo, altrimenti da tecnico, ti avrei preso subito. Saresti stato perfetto per il mio gioco”
Tantissimi gli aneddoti da spogliatoio. La finale di Coppa Campioni contro l’Olympique Marsiglia e il sospetto che qualcuno dei rivali avesse fatto ricorso all’aiuto dei farmaci (“Un difensore alla fine dei supplementari era a terra e gli usciva bava bianca dalla bocca”), la rissa con Rizzitelli a Trigoria, quella volta che Giannini perse 4 milioni in una sfida a biliardo, le battute di Boskov a cui consigliò di far esordire un certo Francesco Totti: “A distanza di quasi 30 anni aspetto ancora che Francesco mi offra una cena”.
mihajlovic e le figlie
Ai tempi della Lazio, invece, resta epico lo scazzo tra Simeone e Fernando Couto. “Uno aveva preso delle forbici, l’altro un coltello. Se non li avessimo separati, si sarebbero ammazzati”. E Berlusconi? Uno straordinario presidente, probabilmente il migliore di ogni tempo. Non era convinto quando decisi di lanciare Donnarumma. Ma un insegnamento calcistico me lo ha lasciato: “Caro Sinisa, nel calcio se vinci sei un bravo ragazzo, se perdi sei una testa di cazzo…”
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