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Elisabetta Andreis per www.corriere.it
Sorridente, vent’anni. Studentessa fuori sede di Economia. Nel tempo libero, arrotonda. In altre epoche si sarebbe detto che l’attività di questa ragazza, bellezza stratosferica e naturale, storia comune e per niente ai margini, è la prostituzione. Ma loro, i giovani — la studentessa di Economia, la sua coinquilina che frequenta il Conservatorio e l’amico di Scienze politiche, tutti più o meno del giro — non accettano quel nome.
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Ne hanno sdoganato un altro che ai loro occhi neutralizza lo stigma: sex working. «Il marciapiede non lo vediamo neanche da lontano, ci mancherebbe. In strada ci sono le vittime della tratta, noi facciamo tutta un’altra cosa — chiariscono subito —. Ci iscriviamo sui siti di incontri (ecco come funziona) e ci proponiamo come sugar baby. Vendiamo esperienze e non c’è disparità di potere perché noi abbiamo la giovinezza, loro il denaro».
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Tutti sono istruiti e se la cavano bene con Internet. Alcune conoscenti si mettono in vetrina filmandosi in diretta con le telecamere collegate ai computer (cam girl), loro invece lavorano con incontri reali che durano una o più giornate, a volte in trasferta, in via riservata: «La prestazione sessuale è il cuore di un accordo che però non si esaurisce lì, comprende anche altro — prova a spiegare la studentessa del Conservatorio —. Una sorta di relazione, ma finta, perché dell’altro in realtà non me ne importa niente».
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Sono parole tristi dette con lucidità. Non c’è bisogno estremo, non c’è rassegnazione: piuttosto, sembra calcolo. «Sui siti non si può parlare di soldi, pena l’oscuramento del profilo, per questo la conversazione migra su altri canali, privati — raccontano ancora —. C’è tantissima domanda, anche adesso in tempo di Covid. Quindi possiamo permetterci di selezionare solo chi ci interessa, dire se a quelle condizioni ci va bene oppure no. Accompagnarli è una nostra scelta».
Ad ascoltarli pare che questa variabile (avere la possibilità di selezionare i «pretendenti») renda il lavoro in qualche modo accettabile. Ma cosa c’è di diverso dal subire una violenza, nell’offrire il proprio corpo? I tre la descrivono secondo un altro punto di vista: «Ci assumiamo un rischio quasi imprenditoriale, liberi di smettere in qualunque momento.
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Mai accetteremmo di farci controllare da altri, anche se a volte capita che qualcuno si faccia avanti dicendo di volerci proteggere». Avvicinandosi senza giudizio, per cercare di capire, si raccolgono confidenze. Il progetto è preciso e lucido. Parla ad esempio la studentessa di Economia: «Io ho cominciato questo lavoro due anni fa, lo farò ancora per quattro o cinque, non di più».
Obiettivo? «Mi rifiuto di abitare in un bilocale di periferia in quattro, così invece posso stare appena un po’ più comoda, in zona Isola, mi pago gli studi e soprattutto metto da parte i soldi che mi serviranno per fondare una start up o aprire un negozio tutto mio, invece che restare disoccupata».
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All’inizio si imbarazzava, della compagnia erano solo in due a farlo, ma poi altri hanno provato, «anche nostri amici maschi, ora ne parliamo». Sono parole scioccanti per quello che pare un certo distacco nel descrivere tutto questo: «Tra noi non ci vergogniamo e se qui manteniamo il riserbo sull’identità è solo perché i nostri genitori, se solo immaginassero, non si riprenderebbero più».
La strategia è mantenere pochi clienti fissi in modo da limitare al massimo gli incontri occasionali: «In questi mesi io ne ho due e con loro guadagno più di seimila euro al mese, solo se mi va aggiungo qualcosa. Di certo per meno di 300 euro io non accetto di vedermi con qualcuno». Gli uomini che si propongono sono sempre benestanti, scapoli o con famiglia, dai 45 anni in su.
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Confida ancora la studentessa di Economia: «La vita mi ha dato poche risorse, tra queste la bellezza, la metto al servizio di quello che mi serve. Vorrei chiarire che non sono soldi facili, è un lavoro molto faticoso, anche per la cura di sé. Non solo del corpo, devi curare anche la mente, perché ti preferiscono di buon umore. E non ti puoi innamorare di nessun ragazzo, o questo lavoro non lo riesci più a fare».
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Usano parole come «professionalità» (riferita al genere di sesso che sono disposte a offrire) e «regalo» (quando in aggiunta ai soldi, lo sugar daddy decide di pagare loro un vestito o magari i libri dell’università). Imparano a raccontarsi che va bene così, «facendo questo mestiere si diventa forti», sostengono che ogni incontro «mette un brivido che si impara a sostenere e quasi desiderare». Raccontano di esperienze anche terribili, «una volta sono stata legata e gettata nella vasca da bagno a lungo, credevo di morire. Volevo denunciare, ma a chi, e cosa avrei potuto dire?». Poi si rivestono e partono. Vanno in ateneo a studiare, come ogni giorno, in mezzo ai coetanei.
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