Marco Molendini per Dagospia
I film sul jazz, anche i documentari, sono stati sempre un problema. Nel senso che non è facile centrare il bersaglio. Persino un personaggio come Miles Davis che offre tutti gli argomenti per rendere facile il racconto (estro sublime, perdizione, glamour, successo, orgoglio razziale) è stato oggetto di ricostruzioni deludenti e superficiali, basta pensare al brutto film di Don Cheadle, Miles Ahead.
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Ben altro respiro ha questo film del regista Steve Nelson, autore specializzato in ricostruzioni che riguardano la storia dei neri d'America, che è arrivato rapidamente su Netflix (benedette le piattaforme dello streaming: in altri tempi, per riuscire a vedere un film come questo, avremmo dovuto fare miracoli).
Miles Davis: Birth of the cool, titolo che sfrutta il primo grande capitolo creativo della carriera del divino trombettista, è un viaggio ricco di materiale, va avanti per capitoli cronologici, si parte dal 1926 anno di nascita di Miles e si va fino al 1991 quando se ne è andato.
Ricorre a testimonianze preziose, quelle di colleghi come Jimmy Heath, James Cobb, Quincy Jones, Wayne Shorter, Carlos Santana, di amici, del biografo Quincy Troupe (a proposito di delusioni, anche quella autobiografia dettata da Miles era una delusione), di ex come l'ex bellissima Frances Taylor e come Juliette Greco (entrambe ricordano senza nascondere la sua commozione).
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Ci sono spezzoni inediti, Miles boxeur che si allena in palestra, foto bellissime, immagini d'epoca, ma soprattutto c'è il suono della sua tromba, più forte di qualsiasi parola, magico e commovente. Eppure, pur nella sua efficacia, il film lascia un senso di vuoto, corre veloce verso la fine della sua carriera, non nasconde lo smarrimento creativo che avvolge Davis dagli anni 70, si sofferma sulla crisi da dipendenza dall'eroina e dalla cocaina, racconta il suo glamour, il suo essere alfiere orgoglioso dell'affermazione dell'essere neri, eppure non riesce a spiegare il mistero di quel soffio, su alcuni passaggi è superficiale, non sottolinea a sufficienza le contraddizioni del personaggio: la sua ansia di consumarsi, di correre veloce verso la morte, avvenuta a soli 65 anni e che il film attribuisce a un ictus, ma che c'è chi in privato racconta che Miles fosse ammalato di aids.
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La sua storia meriterebbe un capolavoro, ma in mancanza, non resta che guardare, con piacere, questo Birth of the cool e ripensare che sono passati trent'anni da quando Miles non c'è più. E, in particolare, mi è venuto da riandare con la memoria a quei due giorni passati a Montreux, quando arrivò per risuonare, convinto da Quincy Jones, i suoi capolavori del passato.
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Ricordo un pomeriggio di prove con Miles, magrissimo, incerto che raccontava a Quincy quello che riusciva a suonare e quei passaggi in cui aveva bisogno di un aiuto (c'era l'allora giovanissimo trombettista Wallace Rooney), le lunghe prove, qualche piccola stecca. Poi il concerto con la sua onda emotiva e la conferma: bastava una nota, anche incerta di Miles, per riempire l'anima. Come nel documentario di Steve Nelson.
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