Ilaria Maria Sala per "La Stampa"
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Cinque giorni dopo le due esplosioni che hanno distrutto l' area Binhai del porto industriale di Tianjin, le notizie sicure - su quanto è accaduto, su quanto può ancora accadere - sono frammiste a propaganda battente.
Il governo cinese ha di nuovo deciso di mantenere il controllo più assoluto su quanto trapela e, mentre è stata ordinata l'evacuazione di tutta l' area, la censura lavora senza sosta per ripulire il web da immagini e commenti «inopportuni».
I fatti: 112 morti, almeno 95 dispersi (fra cui 85 pompieri), e 700 feriti ancora in ospedale, alcuni gravissimi, dopo che un deposito della Ruihai International Logistics si è incendiato pochi minuti prima della mezzanotte di mercoledì scorso, causando un primo scoppio di una potenza pari a 3 tonnellate di dinamite e un secondo, equiparato a 21 tonnellate di dinamite.
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DEVASTAZIONE TOTALE
È successo a Tianjin, 15 milioni di abitanti a 140 chilometri da Pechino, mezz' ora di treno sulle linee superveloci che collegano le due città prossime a diventare un' unica unità amministrativa. La forza delle esplosioni e degli incendi ha lasciato vasti tratti di Binhai completamente desolati, distese di automobili pronte per il trasporto divenute gusci vuoti di lamiere contorte, case sbriciolate. Immagini che ricordano la devastazione di Hiroshima dopo l'atomica: resiste solo qualche colonna di cemento armato, cavi spenzolanti, e devastazione tutt' intorno.
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Vetri rotti a chilometri di distanza, persone ferite mentre dormivano nei loro letti, intere torri di uffici e appartamenti crollate. Minaccia chimica Shi Luze, capo della regione militare di Pechino (che comprende Tianjin) ha confermato che 700 centinaia di tonnellate di cianuro di sodio erano in stoccaggio nei magazzini (70 volte più del limite consentito), insieme a molte altre tonnellate di sostanze chimiche pericolose.
La catastrofe sta diventando anche ambientale, e militari, paramilitari ed esperti chimici stanno cercando di spegnere i fuochi e ripulire i luoghi prima che inizi a piovere e che le sostanze inquinanti penetrino ulteriormente nell' ecosistema.
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PROPAGANDA
Ieri il primo ministro cinese, Li Keqiang, si è recato a un chilometro dal luogo del disastro: senza maschera anti-gas e in camicia bianca, a dimostrare che l' aria è respirabile. Giornalisti e fotografi, cinesi e stranieri, sono stati fermati dalla polizia e allontanati in malo modo.
Macchine fotografiche sequestrate, foto e film cancellati, mentre la televisione di Stato diffondeva con insistenza tutt' altre immagini, sminuendo il problema: soap coreane, musica, infiniti drammi anti-giapponesi. Solo qualche accenno sui telegiornali. Di nuovo, la priorità è «rassicurare», promettendo punizioni severe ai colpevoli.
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Intanto, più di 50 siti web sono stati chiusi, e almeno 360 account sui social sono stati sospesi, mentre innumerevoli sono i post cancellati da Weibo (sorta di Twitter cinese). Fra questi, anche quello di un poliziotto che diceva che tutti i suoi colleghi sarebbero morti anche se nessuno ne ha dato notizia, e mostrava le fotografie di una stazione di polizia sventrata dall' esplosione.
Certo, alcuni dei post più allarmisti potrebbero essere anche inventati, ma la smania censoria non aiuta e riporta con la mente ad altri disastri cinesi: la nave sprofondata nello Yangtze, o la tragedia di Capodanno di Shanghai quando gli sforzi delle autorità si concentrarono soprattutto sul controllare le informazioni e la rabbia popolare. I parenti delle vittime vengono «ricompensati» per la loro perdita e i più testardi isolati, e presto trattati come persone sospette. Nel caso di Tianjin, però, il disastro non è ancora finito: fuochi ed esplosioni minori continuano ancora.
Nel frattempo, le conferenze stampa ufficiali sono state più volte interrotte: una volta da una domanda «inopportuna» sulla distanza di sicurezza prevista dalla legge per stoccare materiali pericolosi, altre dai parenti disperati di pompieri ancora dispersi, e da residenti preoccupati dall' aria che respirano. A questi, la polizia ha ingiunto di «aver fiducia nel governo» e di «non creare problemi». Come sempre, la «stabilità sociale», prima di tutto.
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