Maurizio Molinari per “la Stampa”
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Barack Obama flette i muscoli contro il Califfo lasciando intendere di voler rimediare a decisioni tattiche che, negli ultimi tre anni, hanno indebolito gli Stati Uniti in Medio Oriente e Nordafrica giocando a favore dei suoi avversari e innescando una spirale di sanguinosa instabilità. A descrivere quanto sta avvenendo a Washington sono le parole dei due più stretti collaboratori dell' inquilino dello Studio Ovale.
Il vicepresidente Joe Biden sceglie la tappa ad Ankara per far sapere che «siamo pronti ad una soluzione militare contro lo Stato Islamico se governo e ribelli in Siria non raggiungeranno un' intesa politica» ovvero se fallirà il negoziato di Vienna sulla transizione a Damasco. E, nelle stesse ore, il generale dei Marines Joseph Dunford, capo degli Stati Maggiori Congiunti, da Washington si dice a favore di una «decisiva azione militare per bloccare l'espansione di Isis in Libia, in maniera da sostenere un processo politico di lungo termine».
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Tanto in Siria e Iraq come in Libia l' amministrazione Usa parla di possibile intervento armato collegandolo all' impegno per favorire intese locali fra le fazioni in lotta. Se ciò avviene è perché il presidente Obama, a meno di 11 mesi dall' Election Day che designerà il suo successore, vede il rischio di un' eredità politica macchiata dai successi del Califfo dello Stato Islamico, Abu Bakr al-Baghdadi.
Dopo aver equiparato Isis nel 2014 ad una squadra giovanile di basket ed essersi vantato nel 2015 di averne ridotto estensione territoriale e capacità militari, Obama si trova davanti un Califfato che, pur obbligato a difendersi nelle roccaforti siro-irachene, ha debuttato sul palcoscenico del terrorismo globale con gli attentati di Sharm el-Sheik e Parigi, ed è riuscito a conquistare il controllo di almeno 200 km di coste libiche, con tanto di vista sulle rotte strategiche del Mediterraneo Centrale.
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La possibilità che i jihadisti mettano a segno nuovi devastanti attentati in Occidente o riescano ad edificare un Califfato maghrebino, fra Libia e Tunisia, è tale da far temere a Obama un finale di mandato capace di travolgere non solo ciò che resta della sua popolarità ma anche le sorti del proprio partito democratico impegnato nella sfida elettorale per mantenere il controllo della Casa Bianca e riconquistare almeno un' aula del Congresso. Da qui la possibilità che sia il Pentagono di Ashton Carter - atteso in Italia nelle prossime settimane - il protagonista di iniziative contro Isis capaci di infliggere colpi sufficienti ad essere percepiti come successi dall' opinione pubblica americana.
Perché non c'è nulla di peggio, nella cultura politica americana, di essere percepiti come un «loser», un perdente. Ciò significa che gli alleati di Washington su ognuno degli scacchieri militari anti-Isis - Siria, Iraq e Libia - potrebbero trovarsi nella condizione di condividere o rifiutare interventi contro il Califfato più energici ed efficaci dei raid aerei fino a questo momento realizzati dalla coalizione creata nel 2014.
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Le avvisaglie sono descritte dai fatti di cronaca degli ultimi dieci giorni: le piste d' atterraggio in costruzione da parte dei genieri nella regione curda della Siria per far atterrare aerei da trasporto, la presenza di truppe speciali nel Nord Iraq e le indiscrezioni su analoghe missioni in corso in Cirenaica lasciano intendere che il Pentagono sta posizionando sul terreno le risorse necessarie per condurre operazioni in profondità. Non si tratterà di tradizionali interventi di terra, a cui Obama continua ad opporsi, ma di raid ben visibili a sostegno di truppe locali, al fine di assestare duri colpi ad un avversario che finora si è giovato della scarsa presenza americana.