Enrica Brocardo per “Vanity Fair”
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Il quartier generale di Vasco Rossi è una palazzina di due piani che affaccia sulla via Emilia, a Bologna. Sotto c’è lo studio di registrazione, a pianoterra quello che una volta era il bar del Blasco e che adesso ospita, tra le altre cose, una ristretta selezione di omaggi personalizzati, tutti regali dei suoi fan: plastici degli stadi dove ha suonato, magnum decorate in suo onore, persino un trono dorato con sullo schienale uno scatto di Modena Park, il concertone del 2017 con il quale ha festeggiato i 40 anni di musica: 220 mila spettatori, record mondiale. Al primo piano ci sono alcune stanze uso ufficio e una cucina, dal secondo scende Vasco.
Gli chiedo come sta, perché ancora oggi la prima domanda che ti fanno quando racconti che andrai a incontrarlo è: «Sta bene? È malato?». Tutti ricordano la grave infezione del 2011 e la lunga convalescenza. Fa una risatina. «Era una malattia dalla quale si poteva guarire e sono guarito».
VASCO MODENA PARK
Il Vasco Non Stop Live parte con la data zero il 27 maggio a Lignano per poi percorrere l’Italia da nord a sud in cinque date. «Modena Park è stato un evento talmente straordinario sotto tutti i punti di vista che uno, dopo, avrebbe anche potuto fermarsi. Ma io di smettere non avevo voglia neanche un po’».
In effetti poteva venire interpretato come un addio. Non si era posto il problema di cosa fare dopo un evento del genere?
«Non avevo in mente che fosse l’ultimo concerto, non sono uno che programma. In realtà lo considero non so se un momento di arrivo o di ripartenza, diciamo uno spartiacque. Dopo Modena Park mi sento libero e tranquillo di poter fare quello che mi pare. Mi voglio divertire e finché la gente, il mio popolo, si diverte io sono pronto a salire sul palco tutti gli anni. Vado fuori e canto le mie canzoni – 24, 30 per volta – e siccome ne ho tante ne rimangono sempre fuori un sacco che mi piacerebbe suonare. Ogni anno c’è Pasqua, la primavera, e da quest’anno, a giugno, ci sono i concerti di Vasco. Questo è lo spirito, capito?».
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La scaletta è già decisa?
«Abbiamo riarrangiato alcuni pezzi vecchi, degli anni Ottanta. Modena Park è stata un po’ una seduta psicoanalitica, nel senso che mi sono ritrovato a cantare canzoni che ho scritto 35, 40 anni fa e che non facevo più da un sacco di anni. All’inizio ero un po’ spaesato, per dire di Bollicine non ricordavo neanche più il testo. Poi, a un certo punto, mi sono ritrovato nello stesso spirito di quando le avevo scritte, di quando avevo 15 anni…».
Quindici di testa.
«Esatto. Perché non ero mica ancora andato oltre quell’età lì. Ho cominciato a crescere sei, sette anni fa. Quando mi sono fermato, grazie anche alla malattia, ho cominciato a guardarmi intorno, a vedere delle sfumature che prima non avevo mai notato e, per i primi due anni, ero come incantato. Adesso, però, di sfumature sto cominciando a vederne troppe e non ne posso più. Sono tante le cose che non mi piacciono».
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Per esempio?
«La triste condizione umana in cui tutti siamo gettati. Una canzone può essere perfetta, tutto il resto no».
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