Francesco Semprini per "La Stampa"
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Sin dall’invasione sovietica dell’Afghanistan, l’esperienza di condivisione e internazionalizzazione dell’ideologia jihadista ha consentito la proliferazione di diverse entità terroristiche nel Paese.
Ad oggi ne sono attive circa venti, alcune costituite da cellule e micro-gruppi interconnessi a catene di comando presenti sul territorio pakistano, come Al Qaeda, Isis-K, la rete Haqqani, Lashkar-e-Taiba (LeT), Lashkar-e-Jhangvi (LeJ), Jaish-e-Mohammad (JeM), il Movimento Islamico dell’Uzbekistan (Imu) e Tehrik-e Taliban Pakistan (Ttp).
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Una delle maggiori è appunto Isis-K già responsabile di attacchi seriali in Kazakistan, Kirghizistan, Uzbekistan e Pakistan, oltre che in Afghanistan. È operativa sulla cerniera dell’Afpak dove si è insidiata e dove opera nel narcotraffico, muovendosi anche nel Nord del Paese attraverso l’alleanza con Imu uzbeko.
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Nascono nel 2014, quando il pakistano Hafiz Saeed Khan viene scelto per guidare il braccio dello Stato islamico nella provincia del Khorasan come primo emiro. Khan, un comandante veterano di Ttp, porta con sé altri importanti membri del gruppo, tra cui il portavoce Sheikh Maqbool e alcuni leader distrettuali, prestando nell’ottobre 2014 giuramento di fedeltà ad Abu Bakr al-Baghdadi.
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Le sue fila si ingrossano di defezionisti taleban che vedono nello Stato islamico un progetto più dinamico e meglio remunerato, creando di fatto una faida con i miliziani delle madrasse che si trasforma in una vera e propria guerra intestina.
La «jihaspora» innescata dalla caduta del califfato consente a Isis-K di drenare in Asia centrale diverse migliaia di foreign fighter già impiegati in Siria e Iraq. In un’intervista a «La Stampa» del 2015 il generale John Campbell, capo della missione Nato in Afghanistan, in merito all'Isis-K spiegava: «Ritengo che ci sia molto “rebranding”, grazie anche all’afflusso di denaro. Diciamo che nella maggior parte dei casi si tratta delle stesse persone che anziché issare una bandiera bianca ne issano una nera, perché incute più timore e attira soldi. Il fatto che Al Baghdadi abbia nominato un delegato per l’Afpak è un segnale da monitorare».
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Dal 2016 tuttavia i ranghi della formazione si assottigliano a causa dell’azione antiterrorismo degli Stati Uniti. L’emiro fondatore Khan viene ucciso da un attacco aereo nella provincia di Nangarhar, il 26 luglio 2016. Gli succedono tre emiri, tutti eliminati dagli Usa in attacchi mirati: Abdul Hasib viene ucciso nell’aprile 2017, Abu Sayed l’11 luglio 2017, e Abu Saad Orakzai il 25 agosto 2018. Dopo una serie di grandi sconfitte e battute d’arresto Isis-K riprende però vigore nel 2020. Un rapporto dell’intelligence spiega che il gruppo mantiene un «ritmo operativo costante» e ha la capacità di compiere «attacchi terroristici a Kabul e in altre grandi città, infoltendo di nuovo i suoi ranghi con membri delusi dei talebani». Specie quelli contrari agli accordi di Doha perché «col satana americano non si deve nemmeno parlare».
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La strategia globale di Isis-K include ora obiettivi locali e globali grazie a una grande capacità militare sviluppata dal suo attuale leader Shahab Muhajir che collabora con lo sceicco Tamim, colui che supervisiona la rete che collega l’Isis-K con le presenze dell’Isis nella regione più ampia.
C’è inoltre da dire che come matrice fondamentale ha quella cecena e quella uighura e questo la rende ancora più pericolosa agli occhi di Russia e Cina che, a questo punto, non possono fare a meno dei taleban per garantire la sicurezza dei loro confini.
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È per questo che Mosca e Pechino non hanno esitato ad avviare subito un dialogo con il nuovo Emirato islamico: «L’obiettivo è fare in modo che, soprattutto in questa fase in cui sono andati via gli occidentali, il Khorasan da magnete dell’Isis non ne diventi una struttura», spiega Arije Antinori, esperto europeo di terrorismo. Anche per questo i russi stanno facendo esercitazioni al confine col Tagikistan e hanno evacuato dall’Afghanistan un certo numero di cittadini delle ex repubbliche sovietiche.
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Alla luce di quanto detto gli attentati di Kabul possono essere letti con una doppia valenza. Ovvero da una parte come un attacco all’invasore americano con cui i taleban sono invece scesi a patti. Dall’altra come un attacco ai taleban stessi per mostrarne la vulnerabilità e minarne la credibilità non solo agli occhi del mondo e degli afghani ma anche a quelli degli stessi taleban scettici, delusi, indecisi (o a cui non interessa l’esperienza di governo) e convincerli ad ammainare la bandiera bianca dell’Emirato per issare quella nera dello Stato islamico.