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La specialità di Miguel Gotor (solitamente acuto e puntuale) non è l'arrampicata sugli specchi. Così, a disagio nella nuova disciplina, arranca e produce un ibrido ben scritto ma inevitabilmente ambiguo. Il giornale è "La Repubblica" lo stesso che ebbe in forza Mario Calabresi, figlio del commissario di Pubblica Sicurezza Luigi, ucciso il 17 maggio del 1972 da un commando di Lotta Continua e che ancora ospita sulle sue pagine con i riguardi dovuti all'intellettuale, l'accertato mandante di quell'omicidio, Adriano Sofri.
La storia, come ricorda un altro fraterno amico di Sofri, Giuliano Ferrara («che palle la Strage di Stato») è antica. Quarantatrè anni di Piazza Fontana le cui rifrazioni, specchiate in un film di Marco Tullio Giordana adesso nelle sale ("Romanzo di una strage") accendono le luci sinistre di un tempo lontano e incredibilmente vicino.
Dopo sei processi e «un milione» (Sofri dixit) di pagine scritte in sede giudiziale allo scopo di accertare una verità , siamo sempre all'autodifesa di categoria. Sofri (che a differenza di Pietrostefani, esule in Francia) ha scontato interamente la sua pena è furibondo. Non può accettare l'ipotesi del film di Giordana ispirata da un volume di settecento pagine scritto dal giornalista dell'Ansa Paolo Cucchiarelli.
Quel giorno di dicembre del 1969, secondo Giordana e Cucchiarelli, alla Banca Nazionale dell'Agricoltura esplosero due bombe. Una a basso potenziale (portata da un anarchico) e l'altra fascista tesa a uccidere. Per Sofri il libro di Cucchiarelli è ridicolo e il film «pur risparmiandosi l'oltraggio postumo» di immaginare una compartecipazione anarchica o sporcare la memoria dell'anarchico Pinelli "suicidato" in una stanza della questura di Milano a oltre due giorni dalla strage, sbagliato.
Per dimostrarlo, nel solco della cristallizzante distanza da quegli eventi, sul sito www.43anni.it produce un pamphlet di oltre cento pagine teso a bastonare il volume di Cucchiarelli e a spendere avvelenato sarcasmo nei confronti di Giordana. L'esegesi dell'invettiva sofriana sulle pagine di Repubblica (che pure con Eugenio Scalfari) aveva benevolmente presentato "Romanzo di una strage" è affidata a Gotor che giudica "fondate" le critiche di Sofri allo studio di Cucchiarelli, concede che l'ex leader di Lotta Continua commetta un errore di "leggerezza" nel considerarlo «un libro di storia» (è in realtà un'inchiesta giornalistica dice Gotor per «l'uso e l'abuso che l'autore compie di fonti anonime non verificabili») ma pur ammonendo Sofri al limite delle possibilità concesse dalla scomoda ubicazione di entrambi: «Immagino che con il suo testo abbia ben chiara la responsabilità che si è assunto nel pubblicizzare ulteriormente l'opera di Cucchiarelli») non rievoca mai la tormentata vicenda giudiziaria che un giorno risvegliò la coscienza dell'ex di Lotta Continua Leonardo Marino e trascinò (a due decenni di distanza) lo stesso Sofri a rispondere con i suoi compagni di militanza in Lc dell'omicidio di Luigi Calabresi.
Comprensibile l'atteggiamento di Gotor (anche se l'aggressività di Sofri viene risolta in eufemistico «tormento interiore») come inevitabile è l'autodifesa (prima sul â'Fatto'' con un'intervista, poi sul â'Corriere della Ser''a con una lettera) di Paolo Cucchiarelli medesimo. Lo scrittore non nega la matrice neofascista della Strage, rivela ciò che gli disse l'ex numero due dell'Ufficio affari riservati Silvano Russomanno sulla bomba: «Confusi i reperti delle due valigette esplosive ad arte per non far capire nulla della doppia bomba a chi indagava» e aggiunge: «Ho infranto il sacrario delle verità costituite».
Il senso di Cucchiarelli per la strage, proiettato all'esterno, suona stonato. Una lotta impari tra una presunta novità , la storia di ieri e, par di capire, il potere ancora settario e influente della Lobby di Lotta Continua. Sostiene infatti l'estensore de "Il segreto di Piazza Fontana": «Adesso attaccandomi vogliono distruggere il nocciolo del mio lavoro» e assalito, insinua: «Mi piacerebbe saper cosa si diceva Sofri con Federico Umberto D'Amato, gran depistatore dell'Ufficio Affari Riservati».
Giordana tace. Quel che doveva dire l'ha detto. Il suo film, nonostante la notevole dialettica sulla stampa di ogni parrocchia, fatica. Quarantatrè anni e un vociare indistinto sui giornali utile solo a far percepire e introiettare la prima opera cinematografica su quell'ombra criminale come un altro artificio retorico.
Altra nebbia da aggiungere a nebbia, depistaggio, confusione. Polemiche, arsenico e merletti ormai sfrondati. Disfide verbali, convinzioni ancestrali e regolamenti di conti. Stajano, Sofri, D'Ambrosio. Ognuno con la propria visione degli avvenimenti che, va da sé, non si allontana dal passato. Una storia vecchia, affrontata con l'anagrafe ingiallita, ma senza l'auspicata saggezza.
Nessuno vuole tacere. Nessuno vuole ascoltare. Nessuno vuole davvero discutere. Meglio arroccarsi. Peccato. Visto il dibattito (che come è ovvio supera il valore del film per tornare al consolante cantuccio della barricate ideologica) e persi per persi, viene voglia di dare ragione a Ferrara. Che palle la strage di Stato.
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