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Ugo Magri per La Stampa
Si è diffusa in Senato, tra le vecchie volpi che lo frequentano, una sensazione di crollo imminente: come se tra gli stucchi dorati di Palazzo Madama si stia preparando l’atto conclusivo della XVII legislatura. Nessuno è in grado di prevedere esattamente come e su cosa, ma da sinistra a desta - passando per i Cinquestelle - si immagina uno scivolone del governo, una votazione inattesa, una riforma clamorosamente bocciata, un incidente insomma.
Dopodiché Renzi coglierebbe la palla al balzo per dire «basta, così non si va più avanti». Seguirebbero le dimissioni del premier, le inutili consultazioni e l’inevitabile scioglimento delle Camere.
Tra gli addetti ai lavori si fanno già dei calcoli, calendario alla mano. Poiché la legge prevede che si voti tra i 45 e i 70 giorni dopo la convocazione dei comizi elettorali, per andare alle urne domenica 1 ottobre (la data più gettonata, una settimana dopo le elezioni tedesche, quindici giorni dopo che sarà maturata la pensione degli onorevoli) ci vorrebbe un decreto di scioglimento tra il 20 luglio e la prima metà di agosto.
Dunque l’«incidente» dovrebbe capitare nelle ultime convulse settimane di attività che precedono la pausa estiva, quando solitamente scatta la corsa contro il tempo. E di possibili terreni di scontro se ne annunciano una quantità. Ma perché proprio in Senato?
La spiegazione offerta è perfino banale: a Palazzo Madama, diversamente dalla Camera, la maggioranza è particolarmente instabile e, su certe materie, inesistente. Ad esempio, sulla legge elettorale siamo lontanissimi da una formula condivisa. Per cui sono in molti, specie dentro il Pd, a ritenere che la «tempesta perfetta» potrebbe scatenarsi proprio il giorno in cui dovesse fallire l’ultimo tentativo di trovare un accordo.
Come tempi ci saremmo: al momento se ne sta discutendo in Commissione affari costituzionali alla Camera, a fine mese un testo andrà in Aula, ai primi di giugno la legge elettorale si trasferirà in Senato. Dove a quel punto tutto potrà accadere.
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