NE VEDREMO DELLE BELLE: VOLANO GIÀ GLI STRACCI TRA I TECNO-PAPERONI CONVERTITI AL TRUMPISMO – ELON…
Goffredo De Marchis per “la Repubblica”
Confermata la riunione delle minoranze di oggi. Confermata l’assemblea serale dei 110 parlamentari bersaniani. Sullo sfondo, in caso di scontro duro, rimane il referendum della base, minaccia che ha fatto infuriare l’ala renziana del Pd e persino il braccio destro del premier Luca Lotti, solitamente poco loquace. «Ma è un’extrema ratio », continuano a dire gli oppositori.
Le parole di Giorgio Napolitano sulla riforma del lavoro hanno però spiazzato la sinistra interna. Che adesso ha capito di avere pochi margini per il non detto della battaglia sull’articolo 18, ovvero il sogno di una rivincita su Renzi, l’idea di giocarsi la partita della vita per riconquistare un ruolo di primo piano. Questo tipo di messaggio, soprattutto questo, è arrivato forte e chiaro. «Per il Quirinale c’è solo il governo Renzi — dicono a Palazzo Chigi — . Non esistono ipotesi di esecutivi tecnici a guida Visco o Draghi». Lo hanno capito così anche i dissidenti. Non esistono alternative. Tantomeno il voto. Con questa realtà bisogna fare i conti.
Per ora la cosiddetta “vecchia guardia” non si ferma. «Dice bene Napolitano — premette Stefano Fassina — . Ma non c’è una sfida tra conservatori e innovatori. Le riforme coraggiose possono essere anche di destra. Quindi, il punto è un altro: se Renzi vuole una riforma di destra o di sinistra ». Spiega Miguel Gotor, che insieme ad altri 10-15 senatori firmerà gli emendamenti alla legge delega ricordando che al Senato la maggioranza ha solo 6 voti di scarto: «La Serracchiani definisce l’articolo 18 un privilegio. È incredibile. Noi pensiamo invece che il reintegro deve rimanere una possibilità accanto all’indennizzo».
RENZI E NAPOLITANO AL GIURAMENTO
Molti scommettono su una retromarcia delle minoranze dopo le dichiarazioni del presidente della Repubblica. Ovvero su un’onesta quanto dolorosa ritirata. Eppure ieri sera la chat dei dissidenti brulicava di messaggi di battaglia. Pippo Civati ha sentito gli altri e ha avuto conferma di una larga partecipazione al vertice di oggi. Rosy Bindi, Gianni Cuperlo, Fassina, Cesare Damiano. Alfredo D’Attorre.
La presenza di Fassina e D’Attorre dimostra che anche Pier Luigi Bersani non si fa condizionare dal Colle in questo confronto. «Andiamo avanti. Cercando il confronto», ha detto l’ex segretario indicando la linea ai suoi. «Napolitano è molto preoccupato e c’è da capirlo — dice un bersaniano di ferro —. Ma sull’emergenza ci abbiamo già rimesso le penne con il governo Monti. La linea di responsabilità a prescindere non ha funzionato, è un dato. Noi abbiamo perso le elezioni immolandoci sull’altare di Monti e l’economia non è uscita dal baratro». Come dire che stavolta non si faranno sconti non solo a Renzi ma nemmeno al Quirinale.
Eppure, nel fronte del dissenso, le posizioni moderate non mancano. «Sono convinto che alla fine troveremo una sintesi — dice D’Attorre —. Noi vogliamo il contratto a tutele crescenti e la riforma. Ci sono i margini per discutere». Ma le armi restano affilatissime.
Per togliere dal tavolo l’ipotesi di un decreto legge e trovare un compromesso con la minoranza, Renzi aspetta di vedere l’atteggiamento nella direzione di lunedì. In particolare, chiederà di scoprire le carte. Verificando se esiste la volontà di rispettare le scelte, visto che sia Bersani sia Fassina si sono riservati la libertà di voto e le firme sugli emendamenti alla legge delega lasciano intravedere una maggioranza in bilico a Palazzo Madama. Civati lo dice con chiarezza: «Se il dissenso in aula si limita a dieci voti, non ci sono problemi. Ma se sono cento i parlamentari contrari, puoi anche abolire l’articolo 18 con Forza Italia. Poi però devi salire al Quirinale».
Ecco il nocciolo della questione: le opposizioni del Pd sono pronte ad arrivare al limite di uno strappo che potrebbe far saltare la legislatura? Andare contro Renzi, sembrano dire le parole del capo dello Stato, significa andare contro Napolitano e il Paese. Perché se l’interpretazione del premier è corretta, il Colle non vede alternative tecniche all’esecutivo. Questa è la posta in gioco, in fondo al duello finale nel Pd.
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