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Luigi Romano per formiche.net
Un presidente emerito della Consulta e un procuratore nazionale si dividono su un libro che mette sotto accusa l’Antimafia, descrivendola come un apparato burocratico, giudiziario, politico e affaristico cresciuto a dismisura e fuori da ogni controllo di legalità e di merito. Il primo, Giuliano Amato, sposa in toto le ragioni del libro, il secondo, Giovanni Melillo, le contesta altrettanto apertamente.
Così la presentazione all’Auditorium parco della Musica de “L’inganno”, scritto dal giornalista e saggista Alessandro Barbano ed edito da Marsilio, si trasforma in un faccia a faccia vibrante. A cui non sono estranei gli altri due protagonisti del dibattito: il giornalista e storico Paolo Mieli e il segretario nazionale delle Camere Penali, Eriberto Rosso, la cui adesione alle tesi del libro è esplicita. A moderare l’incontro la giornalista Eva Giovannini.
Così una platea di trecento invitati, tra cui rappresentanti delle istituzioni, della politica, dell’impresa e delle professioni, come Gianni Letta, Paolo Savona, Carlo Calenda, Maria Elena Boschi, Matteo Richetti, Renato Brunetta, Lucia Annibali, Roberto Giachetti, Lorenzo Bini Smaghi, Lorenzo Casini, Veronica De Romanis, Danilo Iervolino, Gianni Lettieri, Gabriella Giammanco, Annamaria Malato, Luca De Fusco, Francesco Tagliente, Enzo Cardellicchio, assiste a un confronto serrato sulla crisi della giustizia penale e sulla deriva dell’Antimafia, che il libro di Barbano definisce un sistema dove l’eccezione diventa regola. Con l’effetto che confische e sequestri colpiscono migliaia di cittadini e imprenditori mai processati, o piuttosto assolti, sentenze anticipano leggi, pene crescono al diminuire dei reati e una falsa retorica professa l’idea che il rovesciamento dello Stato di diritto sia necessario alla vittoria sulla malavita.
«Da giurista negli anni Sessanta – racconta Amato – ho firmato un libro nel quale proclamavo l’insostenibilità delle misure di prevenzione, da Presidente del Consiglio trent’anni dopo ho firmato le leggi speciali seguite all’omicidio Borsellino. Portando dentro di me tanto le ragioni che ostano alla pena del sospetto quanto quelle che ritengono prioritaria la lotta alla mafia, io condivido quello che scrive l’autore del libro, e cioè che qui abbiamo passato il segno». Il presidente conclude con un appello a non esagerare.
Di segno opposto l’intervento del procuratore Giovanni Melillo, per cui «il j’accuse del libro ripete non pochi dei vizi che attribuisce al mostro giudiziario contro cui si scaglia. Neanche come provocazione può accogliersi – secondo Melillo – l’idea che la legislazione antimafia sia un moloch nutrito di sole pulsioni giustizialiste». Il procuratore condivide l’idea che «il sistema giudiziario abbia bisogno di una massiccia dose di cambiamento, ma non nel senso che auspica Alessandro Barbano, che vuol comprimere il ruolo della magistratura inquirente».
Esprimendo «personale dissenso sulla tesi del libro», il procuratore accusa l’autore di «estremismo». Ma a difendere l’autore sono tanto Paolo Mieli quanto Eriberto Rosso. Il primo denuncia il «lockdown giudiziario che tiene in una morsa la democrazia italiana e che scatena retate contro innocenti nell’indifferenza generale. «Come mai – dice lo storico e giornalista – abbiamo consegnato il Sud a questo stato di cose, senza avere neanche un senso di colpa? Come mai – aggiunge provocatoriamente, rispondendo a Melillo – la scuola dell’illuminismo napoletano oggi produce solo la tiritera al libro di Barbano»?
«Un bel libro e non una provocazione», definisce «L’inganno» Eriberto Rosso: «Barbano tenta di ricostruire una sensibilità garantista che la nostra politica e il legislatore hanno perduto nel tempo, poiché tutte le risposte emergenziali si sono stabilizzate nel sistema. Non a caso la stessa riforma Cartabia prevede che il giudice che proscioglie l’imputato, perché non è riuscito a provare la sua colpevolezza, trasmetta gli atti al procuratore antimafia, affinché valuti se procedere con le misure di prevenzione. Vuol dire assolvere e punire allo stesso tempo, questo è inaccettabile».
Da ultimo l’intervento dell’autore, che è una replica alle critiche del procuratore: «Sono un estremista perché vorrei che le sentenze di assoluzione non divergessero dalle sentenze di confisca? Perché ho criticato l’estensione del codice antimafia ai reati contro la pubblica amministrazione, l’estensione della pericolosità dalle persone alle cose, dai defunti agli eredi?
auditorium presentazione libro barbano
Sono un estremista perché chiedo che il concorso esterno sia definito da una legge dello Stato e non cucito dalle sensibilità delle diverse sezioni della Cassazione, e poi ricucito nella prassi attraverso le sentenze dei tribunali fondate sul sospetto? Sono un estremista perché ricordo che la confisca senza condanna non esiste in quasi nessun paese d’Europa, e dove pure esiste è ancorata alle garanzie del processo penale e all’accertamento di un reato?
Sono ancora un estremista perché chiedo che la legge Rognoni-La Torre venga ricalibrata per tornare a colpire la mafia? Non mi sento un estremista – ha concluso Barbano – quando chiedo che la ricerca doverosa degli autori delle stragi porti a giudizio prove verificate, o quando rivendico che la giustizia non sia la sede della lotta alla mafia, ma il luogo sacro ed estremo dove si accerta la colpevolezza o piuttosto l’innocenza».
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