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SALA E PEPE - IL SINDACO DI MILANO SI CONFESSA A “VANITY FAIR”: “A 39 ANNI MI HANNO DIAGNOSTICATO UN LINFOMA NON HODGKIN. NON È EREDITARIO, MA ERA LO STESSO CHE SI ERA PORTATO VIA MIO PADRE IN SEI MESI. HO LOTTATO PER DUE ANNI, E ORA SONO QUI. NON BISOGNA SUBIRE IL CANCRO, MA VIVERLO COME UN’OPPORTUNITÀ. NON AVERE FIGLI È STATO UN ERRORE. AVREI DOVUTO CONGELARE IL SEME PRIMA DI FARE LA CHEMIO…”
Silvia Nucini per https://www.vanityfair.it
Nella vita di ognuno c’è un Vietnam: il posto da cui torni, e non sei più la persona di prima. Il sindaco di Milano ne ha addirittura due: un linfoma non Hodgkin ed Expo. Se la prima chiamata alle armi gli ha spaccato in due l’esistenza (ne parleremo più avanti e per farlo lui si allontanerà con un gesto secco dalla scrivania), la seconda lo ha allenato a non perdere il sonno anche di fronte alla notizia di una richiesta di rinvio a giudizio per abuso d’ufficio, arrivata – «non certo inaspettata» – il 16 gennaio e riferita a un appalto per gli alberi di Expo.
«Dormo bene perché so chi sono e cosa ho fatto, ma non voglio difendermi qui: a questo penseranno i miei avvocati, in tribunale. Quando ho accettato di fare l’amministratore delegato di Expo sapevo che la mia vita sarebbe cambiata, che mi sarei esposto a questo genere di rischi. Del resto è ormai impossibile amministrare la cosa pubblica senza incappare in procedimenti giudiziari, o, meglio, si può, ma al prezzo di una cautela che rasenta la paralisi, una modalità che non mi appartiene».
Quasi sessantenne, Beppe Sala da Varedo, ex bocconiano, ex Pirelli e Telecom (è stato l’uomo di Tronchetti fino a quando non è finita «e non sai se sei tu che te ne vai o se ti stanno mandando via»), ex ad di Expo, è il sindaco della rinascita di Milano. Ma siccome i meriti non sono miracoli, lui ha scritto un libro (Milano e il secolo delle città, La nave di Teseo) per spiegare come si è arrivati qui, un lungo viaggio che parte dal sindaco Albertini che decide di cambiare lo skyline della città, passa per la Moratti che porta a casa l’Esposizione universale e arriva al primo cittadino manager-ma-di-sinistra.
«Ho voluto dire che il modello Milano è replicabile, ma ci vogliono tempo e impegno. E soprattutto bisogna capirla, questa città, che non è solo lavoro ed efficienza, ma anche anima e solidarietà. Senza questo pezzo il modello Milano non esiste, non funziona».
BEPPE SALA AL GAYPRIDE A MILANO
Antifascista convinto, aperto ai migranti, dice che «la borghesia conservatrice della città mi perdona gli scatti a sinistra perché in cambio lavoro per una città che funziona e guarda avanti. Il domandone è: l’Italia vuole stare al passo con Milano o vuole lasciarla sola? Da soli non piangiamo, continuiamo a guardare al mondo».
«Certo», aggiunge, «è una subottimizzazione», rivelando che certi modi di parlare da azienda non ce li si leva più di dosso. Così come gli orari: «Lavoro almeno 12 ore al giorno». Quando lo incontro ha appena preso una decisione a suo modo storica per uno della sua generazione: «Vendo la macchina».
Com’era Milano vista da Varedo?
«Un sogno, un mito. Per i ragazzi della mia generazione tutto girava intorno alla musica: ascoltandola, imparavamo ogni cosa, anche l’inglese. I concerti li facevano solo a Milano, e per venire dovevo lottare con mio padre, un brianzolo tutto d’un pezzo che non subiva per nulla il fascino della città».
Alla fine la lasciava andare?
«Sempre. Era un uomo saggio, capiva che io ero diverso da lui. Aveva una piccola azienda di mobili che, almeno all’inizio, sperava io portassi avanti. Poi, ha capito anche questo: che non l’avrei fatto, che avevo ambizioni diverse. Quando è morto l’ho regalata a un concorrente, con il patto che assumesse tutti e quaranta i nostri dipendenti. Non l’ho mai visto come un gesto di generosità, ma come una cosa che andava fatta: molti di loro mi avevano visto crescere, non potevo fare finta di nulla».
Essere un ragazzo di provincia l’ha condizionata in qualche modo?
«Mi ha dato una fame e una voglia di rivalsa che sono state il mio motore per tanti anni. Poi, a un certo punto, è cambiato tutto. Oggi il pensiero del mio futuro – cosa farò, dove sarò – mi lascia totalmente indifferente. Quel che dovevo dimostrare l’ho dimostrato. E vedo che meno mi agito, più le cose accadono».
Quando è cambiato tutto?
«A 39 anni mi hanno diagnosticato un linfoma non Hodgkin. Il linfoma non è ereditario, ma era lo stesso identico tumore che si era portato via mio padre: in sei mesi, senza lottare. Invece io ho lottato per due anni, e ora sono qui, anche se da certe cose hai la sensazione di non essere mai uscito per davvero.
Fino alla diagnosi avevo solo corso, e pensato a me stesso. Sono passato dal sentirmi onnipotente a niente. Dopo il trapianto di staminali pesavo dieci chili meno e non avevo più un pelo su tutto il corpo. Quando sono tornato al lavoro – tre settimane dopo l’intervento – e mi sono visto riflesso nello specchio dell’ascensore dell’ufficio, ho visto un cadavere. Ma non ero morto, anzi. La mia seconda vita è stata la migliore».
Che cosa ha lasciato nella prima vita?
«Le insicurezze. Ne avevo tantissime».
E che cosa ha trovato nella seconda?
«Una frase: “Vediamo cosa arriva”. E le cose arrivano. Quando mi chiedono di parlare con qualcuno che è malato, dico sempre due cose, quelle che ho fatto io. Che sono state: avere una fiducia totale nella medicina e non subire il cancro, ma viverlo come un’opportunità».
Lei non ha figli. È stata una scelta?
«È stato un errore. Avrei dovuto congelare il seme prima di fare la chemio. Mi avevano informato che sarei diventato azoospermico, ma allora pensavo solo a portare a casa la pelle, e non mi sono preoccupato dei figli. In seguito mi sono molto pentito di questa leggerezza, poi ho superato il pentimento e, semplicemente, ho accettato la realtà dei fatti. La mia compagna (Chiara Bazoli, ndr) ha tre figli e, senza nulla togliere al loro bravissimo papà, mi piace passare il tempo con loro, anche se non viviamo insieme. E poi per tantissimi figli di amici sono “zio Beppe”. Mi scrivono, mi chiedono consigli che io do, sperando sempre che non siano in contrasto con quello che dicono i genitori, se no mi tocca litigare».
beppe sala celebra le prime unioni civili gay a milano 4
Ha avuto un passato sentimentale piuttosto animato, se così possiamo dire.
«Mi sembra una buona definizione, ed è inutile negarlo. Sono un uomo irrequieto di natura e Gemelli di segno zodiacale, il che complica le cose. Sembro freddo e razionale, invece ho un lato inaspettato. Comunque vorrei chiarire che mi sono tranquillizzato: la donna con cui sto è un punto d’arrivo».
Qual è il posto di Milano che ama di più?
«Santa Maria delle Grazie e, lì di fronte, la Casa degli Atellani dove vive il mio amico Piero Maranghi. La sua è forse la casa più bella di Milano, sui cui divani ho passato più di una notte, dopo la mia ultima separazione».
E c’è qualcosa che le manca di una città meno glamour di quella di adesso?
«I negozi, quelli piccoli, di quartiere, dove si parlava milanese e ci si tratteneva per stare un po’ insieme. Il mito dell’h24 non è il mio: sono un sostenitore della velocità di pensiero, non della frenesia. Il tutto sempre aperto non ha alcun senso».
La vendita della macchina rientra nella lotta alla frenesia?
«Ma sì, non mi serve davvero. E qualche volta posso anche prendere il treno».
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