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“Il Cavaliere Nero, la vera storia di Silvio Berlusconi”, di Paolo Biondani e Carlo Porcedda
Paolo Biondani per l’Espresso
Marcello Dell’Utri, nel 1986, è sotto intercettazione a Milano per i suoi rapporti con il boss mafioso Vittorio Mangano, ormai condannato al maxi-processo come trafficante di eroina tra Italia e Stati Uniti. Dodici minuti dopo la mezzanotte del 29 novembre 1986, il manager di Publitalia riceve una telefonata da Berlusconi, che lo informa di aver subito un attentato. L’esordio è fulminante.
Berlusconi: «Allora è Vittorio Mangano che ha messo la bomba».
Dell’Utri: «Non mi dire, e come si sa?».
Berlusconi: «Da una serie di deduzioni, per il rispetto che si deve all’intelligenza... È fuori».
Dell’Utri: «Ah, non lo sapevo neanche».
Berlusconi: «E questa cosa qui, da come l’hanno fatta, con un chilo di polvere nera, fatta con molto rispetto, quasi con affetto. Ecco: un altro manderebbe una lettera o farebbe una telefonata: lui ha messo una bomba».
Dell’Utri: «Ah... perché, cioè non si spiega proprio».
Nella stessa telefonata l’imprenditore allude a un altro attentato, da lui subito nel 1975.
Silvio Berlusconi con Marcello DellUtri Foto di Alberto Roveri
Berlusconi: «Poi, la bomba, fatta proprio rudimentale... con molto rispetto... perché mi ha incrinato soltanto la parte inferiore della cancellata, un danno da duecentomila lire... quindi una cosa rispettosa e affettuosa».
Dell’Utri (ride): «Sì, sì, pazzesco... Comunque sentiamo, sì».
Berlusconi: «Non c’è altra spiegazione... è la stessa via Rovani come allora».
Dell’Utri: «Sì, sì... Adesso vediamo... Comunque credo anch’io che non ci sono altre richieste. Anche perché non ci sono, voglio dire. Si sarebbero fatti sentire, insomma, no?».
Berlusconi: «Va be’, niente, stiamo a vedere...».
A questo punto cambiano argomento, ma poi tornano sul discorso della bomba.
Berlusconi: «Mi hanno aperto un po’ gli occhi i carabinieri, un chiaro segnale estorsivo, e quindi ripensi che a undici anni fa...».
Dell’Utri: «Sì, ma non vedo altro neanch’io, pensandoci bene hai ragione, da dove può arrivare insomma?... In effetti, se è fuori, non avrei dei dubbi netti. Va be’, tu sei sicuro che è fuori?».
Berlusconi: «Me l’hanno detto loro (i carabinieri)... Ti passo Fedele».
Confalonieri: «Marcello, allora, sei d’accordo anche tu, no?».
Dell’Utri: «Sì, guarda, non sapevo che è fuori, ma se è fuori non ci sono dubbi, direi».
Confalonieri: «Non è un uomo di fantasia... Si ripete. Ha cominciato a dieci anni a fare così, ha quarantun anni adesso...».
Dell’Utri: «E poi anche con un attentato timido, solo per dire: sono qui...» (ride).
Confalonieri: «Come la terra con la croce nera, come l’altra volta, ti ricordi?».
I giudici osservano che in questa telefonata Berlusconi, Dell’Utri e Confalonieri parlano di due diversi attentati, commessi a undici anni di distanza. Il più grave è il primo: il 26 maggio 1975 esplode una bomba nella villa di Berlusconi in via Rovani a Milano. La casa è in restauro, l’ordigno sfonda i muri perimetrali e fa crollare il pianerottolo del primo piano, provocando danni ingenti.
L’attentato viene però denunciato solo dall’intestatario formale della villa, Walter Donati, per cui viene collegato a Berlusconi solo in seguito. A quel punto le indagini raccolgono indizi su un paventato progetto di sequestro del figlio di Berlusconi, ma l’autore dell’attentato resta misterioso.
Nella telefonata intercettata, Berlusconi, Dell’Utri e Confalonieri paragonano quella bomba del 1975 a un nuovo ordigno, meno potente, esploso poche ore prima, il 28 novembre 1986. Come evidenziano i giudici, «questa telefonata dimostra che Berlusconi, Dell’Utri e Confalonieri non avevano alcun dubbio sulla riconducibilità a Mangano dell’attentato di undici anni prima». (…) Ma anche se «nessuno dei tre nutriva alcun dubbio nel ricondurre la bomba del 1975 a Mangano – sottolineano i giudici – nessuna indicazione fu offerta agli investigatori, anzi si decise di non denunciare direttamente quell’attentato».
Poche ore dopo, nel pomeriggio del 29 novembre 1986, Dell’Utri telefona a Berlusconi per riferirgli cosa ha scoperto sull’attentato del giorno prima. Gli dice testualmente: «Ho visto Tanino, che è qui a Milano». Il Tanino in questione è sicuramente Cinà: non lo negano né lui né Dell’Utri. Già questo è un riscontro: Cinà vedeva davvero Dell’Utri a Milano proprio nel periodo delle riscossioni mafiose rivelate dai pentiti, come confermano anche altre intercettazioni del 1987.
Dopo aver fatto il nome di «Tanino», Dell’Utri racconta quali notizie ha raccolto tramite quell’amico palermitano: assicura a Berlusconi non solo che Mangano è ancora detenuto, ma anche che può stare «tranquillissimo», nonostante l’attentato. E precisa di essere certo dell’estraneità di Mangano («è proprio da escludere categoricamente») anche se i carabinieri sospettavano il contrario.
Analizzando la telefonata, i magistrati osservano che, per identificare l’autore di un attentato di matrice mafiosa, «Dell’Utri si rivolge a Cinà proprio perché gli è nota la sua mafiosità». E appunto perché ha raccolto informazioni dall’interno di Cosa nostra «può escludere con certezza la matrice di Mangano, anche se è notorio che i mafiosi, quando vogliono, riescono a delinquere anche in carcere».
Vittorio Mangano in tribunale nel 2000
I giudici trascrivono anche una battuta che Berlusconi, al telefono con Dell’Utri, dice di aver fatto ai carabinieri, lasciandoli sbalorditi, e cioè: «Trenta milioni li avrei anche pagati». Un passaggio giudicato «sintomatico dell’atteggiamento mentale dell’imprenditore disponibile a pagare, ma non a denunciare le richieste estorsive».
Una posizione confermata anche da un’intercettazione del 17 febbraio 1988. Berlusconi parla con un amico immobiliarista, Renato Della Valle, di altre minacce criminali che non ha mai denunciato né chiarito. Questa volta il Cavaliere è preoccupatissimo. E confida all’amico: «Se fossi sicuro di togliermi questa roba dalle palle, pagherei tranquillo».
Le rivelazioni dei pentiti riconfermano questo quadro e aggiungono i pezzi mancanti. L’attentato del 1975 l’ha fatto Mangano, probabilmente per rientrare nel giro dei soldi di Arcore. L’ordigno del 1986 invece l’hanno collocato i catanesi. Per cui, come Dell’Utri riesce a sapere in tempo reale, i mafiosi palermitani e corleonesi non c’entrano. Riina però sa chi è stato. E ne approfitta per usare proprio Catania come base per le nuove intimidazioni, quelle che gli permettono di ricementare il rapporto Cinà-Dell’Utri e raddoppiare la posta.
Ricostruendo la storia di queste «affettuose» bombe mafiose, i giudici sottolineano tra l’altro che anche l’attentato del 1986 era rimasto «del tutto assente da ogni cronaca giornalistica». Eppure i boss di Cosa nostra sapevano tutto. E i pentiti hanno potuto raccontarlo.
Testo tratto dal libro “Il Cavaliere Nero, la vera storia di Silvio Berlusconi”, di Paolo Biondani e Carlo Porcedda, ed. Chiarelettere.
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