CASELLI NON MOLLA SU ANDREOTTI: “QUEL BACIO CON RIINA PUÒ BENISSIMO ESSERCI STATO. MA LA COSA PIÙ IMPORTANTE SONO I DUE INCONTRI CON BONTATE. DI QUESTO NON SI È MAI PARLATO ED È PASSATA COSÌ LA FANDONIA CHE ANDREOTTI SIA STATO ASSOLTO”

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Cesare Martinetti per ‘La Stampa'

Gian Carlo Caselli lascia dopo quarantasei anni e innumerevoli battaglie. L'ultima - con Magistratura democratica, la «sua» corrente - se la sarebbe risparmiata. La rottura è «dolorosa», ci dice. Avrebbe preferito che non si venisse a sapere, che tutto si potesse consumare in una discussione tra amici. «Non è stato possibile», segno che «amici» non si è più tanto, che lo strappo è più profondo, culturale e non solo personale.

Quella frase di Erri De Luca apposta con leggerezza sull'agenda di Md 2014 che evoca gli anni di piombo come anni di «guerra civile» è davvero indigeribile. Ci dice Caselli: «Sono enormemente dispiaciuto, ma altrettanto convinto che non si potesse pubblicare un testo di sostanziale valutazione positiva della lotta armata su una rivista di magistrati, sia pure con qualche balbettante distinguo».

Tanto più indigeribile perché qualcuno di Md ha giustificato la pubblicazione della frasetta come l'omaggio all'«impegno civile» di uno scrittore che ha giustificato e compreso il terrorismo, grottesca testimonianza della distanza lunare che separa l'ormai ex procuratore di Torino da questa «generazione che non ha vissuto».

Racconta Caselli: «Stamattina quando sono arrivato in ufficio mi hanno detto che sui muri di Torino è comparsa la scritta: "Rinaudo-Padalino-Caselli: la pagherete". Rispetto a episodi come questo e di tenore anche peggiore non ho mai letto una qualche forma di condanna o anche solo di dissociazione netta e non ambigua da parte della componente perbene dei No Tav o di illustri e celebrati intellettuali torinesi. C'è qualcosa che non va. Lo slogan "siamo tutti black bloc", è frequente da quelle parti».

Dottor Caselli, tutto quel movimento e parecchi intellettuali - anche se non apertamente - la accusano di aver criminalizzato il dissenso sociale colpendo i militanti No Tav per aver manifestato contro il cantiere dell'alta velocità in Val Susa. Come risponde a queste critiche?
«È una favola. Con tutti i limiti e le insufficienze abbiamo sempre cercato di fare il nostro dovere rispettando la legge. Che è uguale per tutti, sempre anche quando si tratta di No Tav violenti. Pretendere che in questi casi si chiudano gli occhi non sta né in cielo né in terra».

Vi accusano di mettere in discussione i diritti civili.
«Sicuramente sono messi a rischio i sacrosanti diritti dei lavoratori del cantiere aggrediti, minacciati nella loro incolumità. Il lavoro è un diritto anche per questi operai, un diritto che deve essere riconosciuto e garantito. Chi dimentica questi principi elementari e si appella alla resistenza secondo me bestemmia».

D'accordo, però questo modello di ragionamento che fa continuo riferimento agli Anni Settanta, come se lei volesse ad ogni costo incasellare il mondo di oggi in quello di ieri, non è un'ossessione? Non pensa che potreste sbagliare analisi?
«Gli Anni Settanta sono un'altra cosa e la speranza di tutti è che non abbiano a riprodursi. Ma oggi intorno al cantiere Tav si è formato una specie di laboratorio frequentato da professionisti della violenza provenienti da ogni parte d'Italia e d'Europa. L'espansività di questo laboratorio non è certo un'ipotesi assurda».

Ma l'accusa specifica di terrorismo che avete contestato agli ultimi quattro arrestati non è esagerata?
«Vi invito a riflettere su quanto è accaduto a maggio quando un commando di oltre venti persone mascherate, di notte, distribuite in gruppi collegati fra loro da un comando unificato, che si muovevano con una divisione dei compiti rigorosa hanno compiuto un'aggressione di carattere paramilitare contro il cantiere mettendo gravemente a rischio l'incolumità di chi vi si trovava, poliziotti e operai.

Il gip, giudice terzo indipendente dall'accusa, ha dimostrato la piena sussistenza degli estremi della finalità di terrorismo. Criticate pure, ma ogni considerazione deve partire dal quadro in fatto e in diritto tracciato dal gip. Prescinderne vuol dire fare propaganda: non siamo intervenuti con misure coercitive contro una passeggiata dei valligiani in Clarea».

Voi giudici vi date sempre ragione. Lei è stato membro del Csm. Non trova paradossale che nel nostro Paese i giudici intervengano su ogni campo dell'agire umano e che si assolvano sempre, come se fossero irresponsabili?
«In Italia ci sono 9 mila magistrati, è una famiglia molto articolata, c'è tutto e il suo contrario per preparazione e orientamenti culturali. Ma di esempi negativi non sono in grado di farne.

C'è un dato di fatto, però. Negli ultimi vent'anni, la politica ha delegato esclusivamente a forze dell'ordine e magistratura una serie di problemi gravi che non vuole o non sa come risolvere. È successo con terrorismo, mafie, corruzione, ambiente. Con la tutela della salute e la sicurezza sui posti lavoro. Chi attacca è perché si sentito toccato nei suoi interessi».

Lei nega che vi sia stato uno scontro politica-giustizia, che qualcuno definisce una guerra civile fredda?
«Ma quando mai. La magistratura ha fatto il suo dovere, altri non l'hanno fatto. I magistrati hanno tenuto e spesso salvato la democrazia in Italia. La sconfitta del terrorismo, il contrasto a mafie e corruzione (60 miliardi l'anno), la sanzione dei casi Eternit e TyssenKrupp stanno lì a dimostrare che tante cose diventano un problema (all'Eternit ci sono stati migliaia di morti) perché chi doveva farsene carico non ha fatto nulla».

E i processi politici?
«In Italia non ci sono processi politici nel senso che non sono processi alla politica ma processi con imputati che di mestiere hanno fatto anche i politici. Prendiamo il caso Andreotti. Mi hanno accusato di aver processato la politica e la dc. No, io ho seguito una persona e un fatto».

Quale fatto?
«Quello che la Cassazione ha riconosciuto in via definitiva fino al 1980: Andreotti è stato colluso con Cosa Nostra. Cito la sentenza: "Il sen. Andreotti ha coltivato amichevoli relazioni con i boss mafiosi... li ha incontrati, ha interagito con essi... ha indicato il comportamento da tenere in relazione alla delicatissima questione Mattarella... ha omesso di denunziare le loro responsabilità...".

Per due volte Andreotti ha incontrato il boss Stefano Bontate e i suoi accoliti. Mattarella, onesto presidente della Regione, fu ucciso dalla mafia. Chi dice che io ho messo sotto processo la dc mente sapendo di mentire».


Quel processo ha segnato la storia d'Italia e la sua vita ed è passato agli archivi come il processo del bacio di un boss mafioso, Totò Riina, a un leader politico democratico riconosciuto nel mondo intero, Giulio Andreotti. Però di quel bacio non si è trovata nessuna prova.

«Il bacio è stato riferito da un pentito, Balduccio Di Maggio, l'uomo che ha fatto arrestare il capo di Cosa Nostra Riina e che ha fornito una valanga di prove riscontrate per gli omicidi comuni e per mafiosi doc che è all'origine dei 650 ergastoli comminati a Palermo. Il particolare del bacio noi l'abbiamo portato come elemento di valutazione in processo. Non è stato riscontrato, ma nemmeno smentito. Nessuno ha denunciato Di Maggio per calunnia. Se vuole che le dica come la penso, io credo che quel bacio può benissimo esserci stato. Ma non è questa la cosa più importante».

E qual è? Non ha mai avuto il sospetto che quel bacio potesse essere un virus inserito volontariamente nell'inchiesta per avvelenare il processo?
«Sapesse quante volte ci ho pensato... Ma per me la cosa più importante sono i due incontri con Bontate che la Cassazione conferma ampiamente riscontrati. Di questo non si è mai parlato ed è passata così la fandonia che Andreotti sia stato assolto. Non è vero. Il teste Marino Mannoia, un pentito utilizzatissimo da Falcone, parla molto di Andreotti. La collusione con la mafia è stata provata. Se ne è parlato meno del bacio, ma la verità è questa».

Dunque nessun pentimento da parte sua?
«Nessuno, di cosa mi dovrei pentire? Si devono pentire quelli che hanno fatto una legge contra personam per impedirmi di diventare procuratore nazionale antimafia e sono quelli che dicono che Andreotti è stato assolto. Pensi che contro quella sentenza della Corte d'Appello, poi confermata in Cassazione, ha fatto ricorso anche la difesa di Andreotti. Questa è la prova che non si trattava di un'assoluzione».


Dottor Caselli, perché è andato a Palermo? All'epoca era presidente di Corte d'Assise a Torino e si racconta che alla notizia dell'attentato a Falcone lei abbia detto ai colleghi: tocca a me. Come se fosse una missione. È vero?
«No. Non ci avevo mai pensato, confesso di essere ambizioso, ma dopo il servizio al Csm (1986-90) avevo semmai coltivato la pazza idea di chiedere un incarico in Calabria dove la situazione della giustizia era molto peggiore di quella siciliana.

Invece dopo la morte di Falcone Nando dalla Chiesa organizzò una cerimonia a Milano, ci andai e in quell'occasione venni avvicinato da un ufficiale dei carabinieri che mi disse questa frase: "Il dottore Borsellino le manda a dire che per lei non è ancora venuta l'ora di andare in pensione". Pochi giorni dopo ci fu la strage di via D'Amelio e la morte di Borsellino. Quelle parole mi sono allora sembrate una specie di chiamata. Ma lo dico senza retorica».

Non ha pensato alla difficoltà di affrontare la Sicilia, i suoi veleni e i suoi codici misteriosi? Falcone aveva raccontato a Marcelle Padovani che lui e Buscetta si capivano senza parlarsi, a piccoli gesti, strizzate d'occhio, mezze parole...
«Effettivamente al Csm qualcuno obiettò seriamente che non potevo fare il procuratore di Palermo perché non capivo il siciliano. In realtà la non sicilianità fu la mia forza perché ero estraneo alle feroci polemiche del passato. Ai funerali di Borsellino il vecchio giudice Caponnetto aveva detto sconsolato: è finito tutto. La nostra democrazia stava crollando sotto i colpi della mafia stragista. E invece siamo riusciti a invertire la tendenza e abbiamo costruito dighe. Il primo periodo fu addirittura magico, furono fatte leggi efficaci, abbiamo recuperato l'entusiasmo delle forze dell'ordine. Quella era la Palermo dei lenzuoli... Poi quando abbiamo cominciato ad attaccare le cose sono diventate più difficili, ma nessuno ci ha mai buttato fuori strada».

In quel palazzo di giustizia attraversato dai corvi non si è mai sentito come il funzionario sabaudo Chevalley che al tavolo del whist viene preso in mezzo perché non capisce la Sicilia del Gattopardo?
«Andrea Camilleri, della cui amicizia mi onoro, ha detto sorridendo che la mia andata in Sicilia ha rappresentato il primo risarcimento dei Savoia dopo i danni dell'Unità d'Italia...».

Cos'ha pensato quando ha visto il film di Sorrentino su Andreotti dove lei viene rappresentato come un vanitoso sempre intento a spruzzarsi la lacca sui capelli?
«Mah, non ho capito. Voleva denigrare l'azione della magistratura? Mi è sembrata la furbata di uno che dopo aver dato un colpo al cerchio - Andreotti - abbia voluto dare anche un colpetto alla botte».

Quali sono stati i suoi veri rapporti con Luciano Violante? All'epoca dell'inchiesta Andreotti davate l'impressione di essere il Gatto e la Volpe, complici nell'uso politico della giustizia: uno - lei - faceva le inchieste, l'altro - Violante - da capo della commissione anti mafia le offriva la sponda parlamentare.
«Violante è stato mio collega giudice istruttore, insieme abbiamo fatto l'inchiesta sul primo omicidio delle Br, quello del procuratore di Genova Coco e della scorta. Il capo dell'ufficio istruzione di Torino Carassi aveva costituito il primo pool con l'idea un po' troppo pragmatica che se le Br avessero ucciso uno di noi l'inchiesta doveva andare avanti...

Non nego certo i miei rapporti con Violante, ma chiunque osi affermare che io abbia fatto qualsivoglia intervento d'intesa o in collegamento con lui o altri politici è un infame. Dirò di più: allora lui e Di Gennaro espressero l'opinione che il processo Andreotti si sarebbe anche potuto non fare. Per ragioni di opportunità politica, non certo per ragioni di fondatezza».

Le è mai stato proposto di entrare in politica?
«Molte volte, ma ho sempre restituito la proposta al mittente».

Non tutti i suoi fedelissimi della procura di Palermo hanno fatto lo stesso. Antonio Ingroia per esempio si è candidato usando come piattaforma elettorale la sua inchiesta sui rapporti stato-mafia e contribuendo così all'idea di un'intenzione politica nelle azioni giudiziarie. Cosa ne pensa?
«Non sono stato del tutto d'accordo con lui e gliel'ho detto. Però è sbagliato dire che Ingroia ha usato l'inchiesta come trampolino di lancio politico. Ha usato la sua notorietà non l'inchiesta.

Ha sempre parlato di problemi di politica e giustizia, mai di singole inchieste. La sua scelta di darsi alla politica può essere discussa, ma la fanno tanti magistrati e nessuno ha subito il suo massacro. Inoltre lui ha fondato un movimento politico, non è salito sul carro di qualche partito».

Qual è l'interrogatorio che ricorda di più?
«Sono due, Patrizio Peci e Santino di Matteo, l'inizio della fine delle Br in un caso e il segreto dei segreti sulla strage di Capaci nell'altro. Tutti e due vennero puniti da una rappresaglia di tipo nazista: Roberto, fratello di Patrizio, fu ucciso dalle Br, Giuseppe, il figlio di Di Matteo, fu sciolto nell'acido dai mafiosi. Non li potrò mai dimenticare».

Dottor Caselli, per fare i magistrati ci vuole un impulso morale?
«Questa domanda mi riporta all'inizio, a Magistratura democratica. Per tanti della mia generazione fare i giudici fu la scoperta della Costituzione, come strumento potente per interpretare il proprio ruolo pubblico nel rispetto della legge e a vantaggio della comunità.

Questa era la nostra rivoluzione. Un impulso morale, sì, civile, un'interpretazione della legge non burocratica ma che si fa carico anche del risultato, nel rispetto delle regole. E questo è stato l'obbiettivo della mia vita».

 

 

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