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RICORDATE RENZI, CHE QUANDO ARRIVÒ L’AVVISO DI GARANZIA A DESCALZI PER LA NIGERIA DISSE CHE SE NE FREGAVA DI “AVVISI CITOFONATI AI GIORNALI”? BEH, ADESSO “IL FATTO” SPIFFERA CHE SEC E DIPARTIMENTO DI GIUSTIZIA USA POTREBBERO MULTARE PER 1 MLD L’ENI – LUIGI ZINGALES SI È DIMESSO DAL CDA PERCHÈ NON CONDIVIDE LA LINEA DEL CANE A SEI ZAMPE, CHE È QUELLA DI NON TRATTARE CON LE AUTORITÀ USA, PER NON SCONFESSARE DESCALZI

Giorgio Meletti e Carlo Tecce per “Il Fatto Quotidiano

 

LUIGI ZINGALES LUIGI ZINGALES

Il 3 luglio scorso Luigi Zingales, economista di fama internazionale con tanto di cattedra a Chicago, ha lasciato il consiglio d’amministrazione dell’Eni per il quale era stato designato dal premier Matteo Renzi quindici mesi prima. La sua laconica lettera di dimissioni faceva riferimento a “non riconciliabili differenze di opinione sul ruolo del consiglio nella gestione della società”.

 

Differenze di opinione con chi? Sicuramente con l'amministratore delegato Claudio Descalzi, anche lui voluto da Renzi nel maggio 2014 quando il governo mise fine, dopo nove anni, al regno di Paolo Scaroni. Dietro l'uscita di Zingales, sbrigativamente attribuita a una lite fra prime donne, c'è un problema molto serio per l'Eni e per lo stesso governo italiano: una multa da circa un miliardo di dollari, ovvero tra 900 milioni e un miliardo di euro, che le autorità americane potrebbero a stretto giro infliggere al Cane a sei zampe.

 

Luigi Zingales Luigi Zingales

Eventualità che l’Eni dichiara “infondata” ma che da mesi agita la vita del colosso energetico. L'ordine di grandezza della multa è analogo all'utile netto del colosso petrolifero pubblico (1,3 miliardi nel 2014).

 

“Sesso sicuro in Nigeria” Corruzione protetta? La Sec (Securities and Exchange Commission), equivalente americano dell'italiana Consob, e il Dipartimento di Giustizia di Washington sanzionano le società operanti negli Usa e quotate a Wall Street (come è l'Eni) se coinvolte in casi di corruzione internazionale. Non essendo tribunali ma autorità amministrative, quando aprono un'istruttoria di fatto trattano con l’azienda sotto accusa, e il caso si chiude quasi sempre con una transazione.

 

L'azienda ammette qualche colpa, passa per le armi il manager beccato a pagare tangenti, manifesta buoni propositi per il futuro e cerca così di cavarsela con l’ammenda meno dolorosa possibile. In ballo c'è l'inchiesta sulla presunta tangente da 1,089 miliardi che Eni avrebbe pagato nel 2011 per assicurarsi lo sfruttamento del giacimento petrolifero Block Opl 245 in Nigeria: stimato in 9 miliardi di barili di greggio, vale 15-20 anni di fabbisogno italiano.

 

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 L'indagine del pm milanese Fabio De Pasquale ipotizza che la forte somma sia finita all'ex ministro nigeriano Dan Etete, apparentemente consulente ma in realtà titolare della società schermo Malabu. L'Eni ha sempre replicato di aver pagato direttamente il governo di Lagos, cosa fuori discussione. Il fatto è che si ipotizza che il governo nigeriano abbia girato il denaro alla Malabu. L’autorevole Economist ha intitolato l’inchiesta sul caso nigeriano “Safe sex in Nigeria”, un rapporto di “sesso sicuro” in cui il governo nigeriano avrebbe svolto la parte del preservativo interposto tra corrotti e corruttori.

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Sul caso indagano la autorità britanniche, quelle nigeriane e quelle italiane. Lo scontro tra Zingales e Descalzi è esploso proprio sulla gestione del rapporto con la Sec e il Dipartimento di Giustizia. La complicazione grave è che proprio il numero uno dell'Eni è tra gli indagati ma ha sempre respinto le accuse. A settembre 2014, quando fu raggiunto dall'avviso di garanzia, Descalzi si dichiarò estraneo e cercò di scaricare le colpe sul predecessore: “Fu Scaroni a parlarmi della possibilità di acquisire l'ottimo blocco 245 in Nigeria. Chiarii subito – disse in un'intervista a Gad Lerner per la Repubblica - che era un ottimo giacimento, ma che se c'era di mezzo Etete non si poteva fare. Scaroni poco dopo mi invitò a casa sua e mi fece incontrare Luigi Bisignani (coinvolto nell'inchiesta come “facilitatore”, ndr)”.

 

Descalzi specificò che le conversazioni con Bisignani erano state intercettate sul telefono di Scaroni. “Era il mio capo... Da mesi io non prendo più le chiamate di Scaroni, qui dentro sto cambiando tutto”. Renzi gli confermò la piena fiducia attraverso il rituale attacco ai magistrati: “Noi rispettiamo le sentenze, ma non consentiamo a nessuno scoop di mettere in crisi migliaia di posti di lavoro e non accettiamo che avvisi di garanzia più o meno citofonati sui giornali consentano di cambiare la politica aziendale in questo Paese”.

 

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Citofonare “governo degli Stati Uniti”. Il premier forse non aveva capito che quello “scoop”era stato citofonato anche al governo degli Stati Uniti d'America, che aveva già messo sulla graticola l'Eni. Mentre Zingales, pioniere della prima Leopolda, aveva già messo sulla graticola Descalzi e il capo degli affari legali dell'Eni, Massimo Mantovani.

 

 Il management del colosso petrolifero pubblico era però paralizzato. Andare a trattare con Sec e Dipartimento di Giustizia secondo lo schema “ammissione -pentimento- punizione dei responsabili- buoni propositi” era precluso dal dettaglio non insignificante che l'accusato era proprio Descalzi in persona, impegnatissimo a respingere ogni accusa.

Paolo Scaroni Paolo Scaroni

 

Il numero uno dell'Eni ha avuto anche la sfortuna di un precedente imbarazzante. Nel 2010 il gruppo ha chiuso una vicenda analoga transando con il Dipartimento di Giustizia il pagamento di 240 milioni milioni di dollari e con la Sec di 125 milioni di dollari per un analogo caso di corruzione internazionale, ancora in Nigeria. La transazione fu basata sulle “evidenze sul coinvolgimento della controllata Snamprogetti”, dice oggi l’Eni.

 

A marzo di quell'anno proprio Mantovani mise agli atti una serie di suggerimenti per contenere il danno, a cominciare dall'obiettivo di chiudere alla svelta, entro il mese, un accordo: “Decorso tale termine il nostro legale americano evidenzia il rischio che il Dipartimento di Giustizia e la Sec abbandonino le trattative ed avviino i procedimenti giudiziari”. Inoltre, spiegava il capo del legale, un ’eventuale transazione “consentirebbe di ottenere condizioni più favorevoli, sia per quanto riguarda l’entità della sanzione, sia per quanto concerne le misure accessorie”.

 

In sostanza Zingales ha accusato Descalzi di aver abbandonato – per tutelare la sua personale posizione al vertice del cane a sei zampe – la saggia strategia di contenimento del danno seguita cinque anni fa, e di aver così addossato agli azionisti dell'Eni (tra i quali lo Stato che ne possiede il 30 per cento) un rischio patrimoniale e reputazionale enorme proveniente da una sua disavventura giudiziaria.

 

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La notizia del conflitto esploso dentro l'Eni tra un renziano ante marcia come Zingales e un renziano acquisito come Descalzi - e delle sue ragioni - è arrivata a palazzo Chigi nelle stesse ore in cui l'economista dava le dimissioni. Ci sono due ordini di preoccupazioni. La prima riguarda l'Eni. Se il pericolo paventato da Zingales si materializzasse in autunno con l'arrivo della multa da un miliardo, ci sarebbe il rischio del quasi azzeramento dell'utile 2015 a causa del doveroso accantonamento. E d’altra parte è possibile anche che al gruppo italiano venga tolto – non dalle autorità americane ma da quelle nigeriane - il diritto di sfruttare il giacimento Opl 245.

 

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La seconda preoccupazione riguarda il premier stesso che, come suol dirsi, su Descalzi ci ha messo la faccia. Lo scenario possibile tra poche settimane è che il numero uno dell'Eni, pur restando impregiudicata la presunzione d'innocenza, si trovi nella scomoda posizione di averla difesa a danno della società che il governo gli ha affidato.

 

Infatti, richiesta di un commento su queste notizia, l'Eni, ribadendo “la sua estraneità da qualsiasi condotta illecita”, afferma: “In assenza di evidenze su condotte illecite, come nel caso OPL 245, è fuorviante ipotizzare sanzioni o addirittura transazioni con le autorità americane che anzi in tal caso non solo sarebbero impossibili ma andrebbero a ledere l’interesse della società, degli azionisti e la stessa immagine di Eni”.

MATTEO RENZI CLAUDIO DE VINCENTIMATTEO RENZI CLAUDIO DE VINCENTI

 

Inoltre, in una nota vagamente minacciosa con promessa di azione legale incorporata, l'Eni afferma: “Non abbiamo alcuna notizia su un'asserita richiesta di sanzione da parte della SEC o altra autorità americana. La notizia è del tutto infondata ”. Nel bilancio 2014 dell'Eni c'è una dettagliata informativa sui rapporti con Sec e DoJ a proposito di questa vicenda. Forse all’Eni, sicuri del lieto fine, pensano che gli americani si siano mossi animati da semplice curiosità.