"PENSO CHE SPRINGSTEEN SIA RIMASTO LONTANO DALLA POLITICA FINCHÉ HA POTUTO, MA QUANDO IL TROPPO STROPPIA, PARLARE DIVENTA INEVITABILE" - IL CELEBRE FOTOGRAFO ERIC MEOLA, CHE MEZZO SECOLO FA SCATTÒ L'IMMAGINE DI COPERTINA DELL'ALBUM "BORN TO RUN", USCITO AD AGOSTO 1975, COMMENTA LA PRESA DI POSIZIONE DEL "BOSS" (CHE HA DEFINTITO TRUMP: "INADATTO, CORROTTO E TRADITORE") - IL DIETRO LE QUINTE IN STUDIO CON BRUCE E CLARENCE CLEMONS: "ERO NEL PANICO, VOLEVO CATTURARE LO SPIRITO DEI LORO LIVE QUINDI CHIESI A ENTRAMBI DI CALARSI NEL RUOLO, DI FAR FINTA DI SUONARE, SENZA AMPLIFICATORI. BRUCE ERA STATO EVASIVO AL RIGUARDO, MA..."

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Estratto dell'articolo di Lorenzo Barbieri per "il Venerdì - la Repubblica"

 

bruce springsteen born to run

Venti giugno 1975. Bruce Springsteen, in giacca di pelle nera e canotta bianca, si appoggia sulla spalla di Clarence Clemons e gli sorride. Il sassofonista, colonna della E Street Band, scomparso nel 2011, è più alto del frontman e indossa un fedora nero, ma il cantante sembra superarlo di qualche centimetro grazie a un trucco di scena: una scatola nascosta sotto i piedi.

 

Sulla tracolla della Fender – corpo Telecaster e manico Esquire – si intravede una spilla con il ritratto di Elvis. Sono da poco passate le dieci del mattino. Eric Meola – fotografo di Syracuse – cattura l'istante.

 

Quell'immagine diventerà l'iconica copertina di Born to Run, che lunedì 25 agosto compie 50 anni. Il senso di levità della foto sembra quasi dissimulare con l'estenuante parto creativo del terzo disco del Boss: 14 mesi di lavoro, di cui sei solo per la canzone che dà il titolo all'album. Fu la svolta nella sua carriera. [...]

 

clarence clemons bruce springsteen eric meola 1

Col senno di poi, la copertina di Born to Run – inno all'amicizia e manifesto antirazzista – si rivelò il biglietto da visita perfetto per la sua opera più ambiziosa. Oggi sembra inevitabile che il volto di quelle nove canzoni – tra cui Backstreets, Jungleland, Thunder Road – sia proprio quella foto in bianco e nero, scelta tra seicento immagini realizzate nel giro di due ore. Ne abbiamo parlato con l'autore, 79 anni, figlio di un medico emigrato nel 1916 da Guardiaregia (Molise).

 

Maestro del colore, Meola ha firmato ritratti celebri come quello della soprano Beverly Sills sulla copertina di Time del 1971 e il bambino haitiano detto Coca Kid ('72) Nel 1977, viaggiò insieme al Boss tra Utah e Nevada, raccogliendo poi gli scatti nel box The Promise: The Darkness on the Edge of Town Story (2010). E fu allora che scoprì la passione per i cieli in tempesta, tema poi raccolto nel volume Fierce Beauty (2019).

 

Come arrivò a fotografare Springsteen per Born to Run?

clarence clemons bruce springsteen eric meola

«Lo so che sembra banale, ma ero nel posto giusto al momento giusto. All'epoca non c'erano molti colleghi che lo seguissero, mentre io mi ero messo in testa che, in un modo o nell'altro, l'avrei fotografato.

 

Quando lo vidi la prima volta nel 1973 fui letteralmente folgorato. Vivevo a due passi dal Max's Kansas City, un locale di New York. Bruce e Bob Marley si spartirono il palco. Da allora decisi di vedere altri show. L'anno dopo, prima di un concerto al Central Park, si mise a piovere. Mi riparai sotto la tettoia del Plaza Hotel. E me lo trovai davanti».

 

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Era destino.

«In realtà non sapevo cosa dirgli e allora gli chiesi perché nell'artwork del suo secondo album The Wild, the Innocent & the E Street Shuffle mancassero i testi. Amavo quel disco, ma alcune canzoni non si capivano bene».

 

E poi?

«Bruce accettò una mia richiesta e m'invitò ad Asbury Park dove gli feci alcune foto. Pian piano conobbi tutti gli altri: Danny Federici, Garry Tallent. In quel periodo la E Street Band era nel caos. Suki Lahav, la violinista, era tornata in Israele e Mad Dog (Vini Lopez) fu allontanato dalla band. Il suo sostituto, Ernest "Boom" Carter, e David Sancious se ne andarono dopo il primo brano e furono sostituiti da Max Weinberg e Roy Bittan. Poi si unì Stevie Van Zandt. Alla fine, Clarence e Mike Appel, il manager di allora, convinsero Bruce a coinvolgermi».

 

C'erano altre opzioni per le foto?

«Avevo pensato di ritrarre Bruce tra le rovine di Ellis Island, ma l'idea non andò in porto e compresi che dovevo fare tutto in studio, senza stylist né assistenti. Scelsi il bianco e nero: per me era la cifra autentica del rock'n'roll e non crea distrazioni».

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Eppure lei è famoso per l'uso del colore…

«Sì, sono un allievo di Pete Turner, da cui ho appreso i segreti del mestiere, ma il colore, spesso, diventa il soggetto della foto. Quella scelta era perfetta anche per dare spazio ai testi. Bruce era d'accordo, ma pose come unica condizione quella di portare Clarence con sé».

 

Cosa ricorda di quel giorno?

«Mi avevano dato buca già due o tre volte, forse addirittura quattro. Poi finalmente si presentarono nel mio studio al 134 di Fifth Avenue, a Manhattan. Erano esausti dalle session al Record Plant, lo studio di registrazione dove li aveva portati il futuro manager di Springsteen, Jon Landau, mentre io ero un po' nel panico».

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Come mai?

«Volevo catturare lo spirito dei loro live quindi chiesi a entrambi di calarsi nel ruolo, di far finta di suonare, senza amplificatori. Bruce era stato evasivo al riguardo. Clarence invece entrò presto nella parte e alla fine anche lui, per fortuna, stette al gioco».

 

Quando vide la cover definitiva?

«Ho sviluppato tutto subito, quel pomeriggio. Il mercoledì successivo John Berg, storico art director della Columbia Records, mi chiamò in ufficio e mi mostrò la copertina apribile dove Clarence appariva sul retro. Ebbe la geniale intuizione di utilizzare il lembo di spazio fra il fedora di Clarence e la testa di Bruce ai fini della confezione».

 

È vero che Springsteen non amava quello scatto?

«Berg mi disse che Bruce avrebbe preferito foto più seriose, sul modello di The Wild. Alla fine scelsero quella in cui sorrideva. La copertina pieghevole costava 50 cent in più a copia. Ne erano previste 500.000. Un costo notevole anche per quei tempi».

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Tornando all'attualità: che pensa dei discorsi pronunciati ai concerti contro Trump?

«Penso che Bruce sia rimasto lontano dalla politica finché ha potuto, ma quando il troppo stroppia, parlare diventa inevitabile».

 

Nel libro Streets of Fire (Magazzini Salani, 2015) è raccontato il secondo capitolo della sua collaborazione con Springsteen, con gli scatti per The Promise.

«Percorremmo la Route 80, da Salt Lake City a Reno, su una Ford Galaxie 500XL del 1965, finendo in mezzo a una tempesta. Un'esperienza che Bruce trasformò nei versi di The Promised Land. In quei giorni conobbi anche Pamela, sorella di Bruce e fotografa, che mi parlò delle eccentricità del padre Douglas».

 

Tipo?

«Una volta, senza avvisare Adele – la mamma di Bruce – partirono dalla California per fare un giro in macchina. Arrivarono fino in New Jersey! Tale padre, tale figlio: Bruce non si fermava mai. In quel viaggio restammo in auto trentasei ore di fila, sostando solo per mangiare o far benzina. Avrei tanto voluto fotografare Bruce con suo padre, ma lui reagì male alla mia proposta e non insistetti».

 

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Quando l'ha fotografato l'ultima volta?

«Nel 1986». [...]

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