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L'ANGOLO DEL BUONUMORE – OGGI IL "CORRIERE" VERGA UN ARTICOLO SURREALE, IN CUI SCOPRIAMO CHE “IL…
Gaia Piccardi per il "Corriere della Sera"
«Immagina di essere in cucina, e di cuocere qualcosa nel forno. C'è gente che accetta la sua sessualità subito. Altri hanno bisogno di tempo. Ecco, io ho cotto nel forno per 33 anni».
Le metafore, certe volte, aiutano. Martina Navratilova, nel paleolitico, quando per un'atleta dichiararsi omosessuale era tutto fuorché di moda, chiese aiuto alla raccolta differenziata: «È come riciclare. Se ricicli fai la tua parte per l'ambiente. Se fai outing fai la tua parte per il movimento gay. E a me piace riciclare». Era il 1981. Jason Paul Collins, centro dei Washington Wizards, fratello gemello di Jarron (ultimo ingaggio ai Portland Blazers), aveva tre anni.
In quei trent'anni durante i quali è rimasto in sospensione, fingendo di essere chi non era («Sono uscito con le donne. Mi sono persino fidanzato. Credevo di dover vivere in un certo modo: sposare una donna e allevare dei figli con lei. Continuavo a ripetermi che il cielo è rosso, pur sapendo benissimo che il cielo è blu») e dando fondo al suo personalissimo serbatoio di ipocrisia («Avevo il terrore di dire la cosa sbagliata, non dormivo bene la notte, ho inventato le bugie più penose: ci vuole un enorme investimento di energia per mantenere un segreto così grande»), Jason Collins ha attraversato tutto l'arco costituzionale della Nba, il campionato di basket professionistico americano.
Ha una media di 3.6 punti e 3.8 rimbalzi con sei franchigie diverse: Nets, Grizzlies, Timberwolves, Hawks, Celtics e Wizards. All'apice della carriera, nel 2001, fu la 18esima scelta del draft. Lo scorso febbraio è passato da Boston a Washington. Da ieri è «il giocatore gay dell'Nba».
Quando finiscono le metafore, infatti, cominciano le etichette. Justin Fashanu (1990) è stato il primo calciatore. Greg Louganis (1994) il primo olimpionico. Gareth Thomas (2009) il primo rugbista. Martina Navratilova la prima, e basta.
Sotto l'etichetta («the first active male player in the 4 major american professional sports» come ieri hanno scritto tutti i giornali e i siti statunitensi) c'è la storia, molto vera, molto americana e molto umana di un ragazzo cresciuto nei sobborghi di Los Angeles, raccontata con ironia («Provengo da una bella famiglia e ho avuto un'infanzia felice, che ci crediate o no...») a Franz Lidz di Sports Illustrated, che sul primo outing dello sport americano ha costruito una copertina che dice tutto quello che c'è da sapere. «Ho 34 anni. Gioco centro nell'Nba. Sono nero. E gay».
Il viaggio dentro se stesso ha portato Jason attraverso nove playoff in 12 stagioni sotto canestro, comprese due finali per l'anello. Ma è stata la drammatica trasformazione di Boston - da città gay friendly a teatro degli attentati alla maratona del 15 aprile scorso - a provocare la serena trasformazione di Collins.
Lui la racconta così: «Quando giocavo nei Celtics, vidi il mio vecchio compagno di stanza a Stanford, Joe Kennedy (nipote di Robert F. Kennedy ndr), oggi importante uomo politico, marciare in testa alla sfilata del gay pride 2012. Per la prima volta mi scoprii geloso: geloso della libertà con cui aveva dichiarato al mondo la sua vera essenza. Le bombe alla maratona, due settimane fa, mi hanno mostrato con chiarezza che tutto può cambiare in un istante. Perché non cominciare a vivere nella verità da subito, allora?». Jason l'ha detto alla zia Teri. Poi al gemello Jarron.
Ha scoperto che lo zio Mike è omosessuale. E spera di continuare a giocare a basket ad alto livello. L'accoglienza è stata trionfale. Bill Clinton ha esultato («Momento fondamentale per lo sport»), la figlia Chelsea, ex compagna d'università , ha twittato: «Fiera di te». Si sono felicitati la Navratilova, Spike Lee, Kobe Bryant e persino la Casa Bianca. L'etichetta funziona, e ha scatenato il dibattito: «Quanti seguiranno il mio esempio?».
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