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Stefano Montefiori per "Il Corriere della Sera"
Il demonio a Teheran oggi è Le Grand Satan, la Francia, che ha strappato all'America il primato di nemico occidentale preferito. A Los Angeles invece «Stasera mangio French Fries», esulta l'ex portavoce americano alle Nazioni Unite, Richard Grenell, che 10 anni fa si indignava per il no di Chirac e Villepin alla guerra in Iraq e partecipava alla campagna di odio anti-francese (tra boicottaggio delle patatine al Congresso e litania di insulti ai «francesi arrendevoli scimmie mangiarane»). I tempi sono cambiati.
I falchi della politica internazionale sembrano non volare più a Washington ma a Parigi, e su tutti i dossier più delicati, dalla Siria all'Iran: il 31 agosto il presidente Hollande aveva già deciso per i raid aerei su Damasco, ed è stata solo la marcia indietro di Barack Obama a fargli disarmare i missili Rafale già pronti a colpire. La fiaccola del regime change , la formula neocon applicata dieci anni fa a Bagdad, è ora impugnata da Parigi, la prima a proclamare già un anno fa che «Bashar Assad se ne deve andare» da Damasco.
In Africa, dal Mali alla Repubblica Centrafricana, la Francia è in prima linea. In Medio Oriente è la Francia a tenere il discorso più intransigente sull'Iran, a evocare l'uso della forza per costringere gli ayatollah a rinunciare alla bomba atomica, mostrandosi in questo più vicina a Israele di quanto non faccia l'America, alleato storico dello Stato ebraico.
Il ruolo di baluardo degli interessi e valori dell'Occidente, almeno nel gioco diplomatico e della visibilità mediatica, sembra essere passato dagli Stati Uniti - che vogliono guidare from behind , dalla retroguardia - alla Francia, che teorizza il suo essere una «potenza di influenza»: con poche armate e pochissimi droni, è vero, ma con una rinnovata determinazione politica.
Così succede che Laurent Fabius sia giudicato il maggiore se non l'unico responsabile della mancata intesa alla fine dei colloqui di Ginevra tra i «5 + 1» ( Stati Uniti, Cina, Regno Unito, Francia, Russia più Germania) e Iran. La Francia non si è fidata delle aperture del ministro iraniano Zarif, e ha preteso una rinuncia esplicita al reattore di Arak, che una volta completato potrebbe fornire il plutonio sufficiente per fabbricare ordigni nucleari e rendere così ininfluente l'addio iraniano all'arricchimento dell'uranio.
Il Quai d'Orsay sostiene che nella bozza di accordo provvisorio - di una durata di sei mesi - discussa a Ginevra l'Occidente allentava sì le sanzioni all'Iran, ma in cambio non otteneva alcuno strumento concreto per fermare il programma atomico degli ayatollah. Meglio nessun accordo che un cattivo accordo, e Fabius si è precipitato ad annunciarlo per primo alla radio France Inter. Una esposizione di cui gode ora frutti, e svantaggi.
Il ministro degli Esteri francese raccoglie gli inabituali complimenti degli americani intransigenti - «La Francia ha avuto coraggio. Vive la France! » (il senatore conservatore John McCain) - e gli insulti di tanti iraniani che sabato notte si aspettavano l'inizio di una nuova era nei rapporti tra Teheran e l'Occidente.
Sul conto Twitter attribuito alla Guida suprema Ali Khamenei ieri sono ricomparse parole pronunciate a marzo, con le quali definiva «imprudente e inetta» l'ostilità francese verso l'Iran. E a Fabius arrivano via Facebook minacce in inglese e in persiano: da «occupiamo l'ambasciata francese a Teheran» a - di nuovo, ma stavolta all'altro capo del mondo - «boicottiamo le French Fries ».
FRANCOIS HOLLANDE
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