DINASTY: LO SCONTRO FRA I BUSH E I CLINTON

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Vittorio Zucconi per "la Repubblica"

La casata dei Clinton contro la Dinasty dei Bush: comincia dal Texas il torneo dinastico per il trono dell'America 2016. Neppure sei mesi dopo l'assunzione di Barack Obama al soglio della monarchia pro tempore americana, e a tre anni e mezzo dalle nuove elezioni, sono già cominciate quelle che nel mormorio politico nazionale si chiamano le "primarie invisibili".

Sono i duelli, le giostre, le tenzoni, l'elemosina per i finanziamenti privati, diretti a decidere chi dovrà tentare l'assalto al castello lasciato vacante per forza di Costituzione dall'occupante. E i primi due a indossare l'armatura sono la regina di Casa Clinton, Hillary e il pupillo della Dinasty Bush, quel Jeb che la mamma Barbara e il papà George avrebbero voluto lanciare tredici anni or sono invece di quel George W jr nel quale non avevano - saggi genitori - grande fiducia.

Comincerà in trasferta per Hillary, in un confronto pubblico e trasmesso fortunatamente per gli spettatori in televisione vera e non nella lugubre penombra degli streaming in Rete, a Dallas, dunque nel feudo storico dei Bush che dal New England natale portarono qui tende, accampamenti e fortune.

Sarà una sorta di dibattito parallelo, senza scambi diretti, ma con il confronto fra due discorsi che i giudici tra commenti, blog e cinguettii esamineranno. Una sfida tra grandi promesse della politica e dei rispettivi campi che arriva un po' in ritardo per entrambi, Hillary quasi 66enne, Jeb da poco sessantenne, ma non fuori tempo massimo.
Anche se lei avrebbe, al momento della possibile elezione, 70 anni.

L'occasione sarà l'inaugurazione, il 25 aprile prossimo a North Dallas, della biblioteca museo dedicata al fratello maggiore di Jeb, l'ex presidente George W che sarà costretto a uscire dall'autoesilio nel quale si è confinato, ad abbandonare quelle tele e pennelli che oggi occupano il suo tempo ritraendo soprattutto cani, essendo inverosimile che non partecipi all'apertura del proprio mausoleo.

Ma l'ex Capo di Stato americano sarà una comparsa, quasi un fantasma ingombrante di un passato che il suo partito, e il fratello minore da cinque anni stanno cercando di nascondere. Proprio questo sarà il maggiore ostacolo per Jeb, l'ex governatore di quella Florida che decise, per poco più di 500 voti contati e ricontati, la vittoria del fratello nel grottesco finale delle Presidenziali 2000.

Sono dunque due preoccupazioni opposte, quelle che condizionano la campionessa della Casa Clinton e l'alfiere della Dinasty Bush. Lei, che spera di poter finalmente abbandonare quegli occhialoni con lenti da fondo di bicchiere necessari dopo la botta in testa subita cadendo in casa, deve sfruttare al massimo il carisma, la forza e le doti incantatrici del marito, quel Bill Clinton che la umiliò pubblicamente con Monica birichina e da allora sta pagando a rate i suoi peccati.

Ma se "Slick Will" è un fantastico asset, e una calamita per i fondi che il Comitato per l'elezione della moglie, il Pac, già sta sparecchiando, Hillary deve calibrare bene l'impegno del coniuge. Non deve apparire come la principessa portata dal Re all'altare, ma come quella donna autorevole e indipendente che il mondo ha apprezzato nei tailleur pantalone da Segretario di Stato.

E così Jeb, che ha dalla sua parte la moglie messicana, la eccellente conoscenza dello spagnolo e dunque una carta da giocare con quell'influentissimo elettorali latino che finora i repubblicani hanno trascurato, deve usare il proprio cognome, ma senza legare il proprio futuro al passato del fratello.

Essere una Clinton senza essere Clinton, il compito di Hillary che avrà comunque dalla propria parte il presidente Obama, arruolato dal marito quando il presidente candidato lo scongiurò di appoggiarlo e "Willy l'Anguilla" accettò soltanto in cambio del viatico alla moglie. Essere un Bush senza essere un George, il rischio per l'ultimo cavaliere della famiglia che sarebbe, se vincesse, l'unica nella storia americana a piazzare tre dei propri rampolli sul trono.

Ma le incoronazioni precoci, forse addirittura premature, non sempre funzionano. Non mancano, soprattutto fra i Repubblicani in rotta dopo la doppia batosta presidenziale e parlamentare del 2012, altri cavalieri frementi che non vogliono più saperne di questa dinastia pseudotexana e soprattutto del tanfo di establishment che i Bush, come i Romney e i Mc-Cain, sprigionano. Magari proprio quel Marco Rubio, cubano della Florida anche lui, che certamente è e sembra più "latino" di Jeb. A loro merito, non usano parole fruste e generiche come la nostra «casta», ma se una casta esiste negli Usa, questi sono i Clinton e i Bush, dopo l'inesorabile tramonto dei Kennedy. E che il torneo cominci.

 

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