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Alessandro Trocino per il Corriere della Sera
Dopo la ferma presa di posizione sulla nave Diciotti («scendano tutti»), sulla rete gira un calembour che al presidente della Camera suonerà consueto: che cioè sia la foglia di «fico» di sinistra piazzata per nascondere, senza riuscirci, il corpaccione securitario e intransigente del Movimento 5 Stelle, e che in fondo sia un gioco delle parti funzionale allo status quo. È una delle due letture che girano sulla rivalità che divide Roberto Fico da Luigi Di Maio. L' altra è che la spaccatura sia reale e foriera di sviluppi imprevedibili. Anche perché l' esternazione del presidente della Camera, accolta dal gelo di Di Maio, ha riscosso un seguito non irrilevante nelle truppe.
E così ora si fronteggiano a volto scoperto le due anime del Movimento. Da una parte c' è Fico, laureato in Scienze della Comunicazione, ex tour operator, ex importatore di tessuti dal Marocco e poi appassionato di politica, sostenitore della «rivoluzione» di Bassolino e di Rifondazione. Nel M5S diventa subito il punto di riferimento degli ortodossi e tiene la barra dritta contro derive di destra.
Fico, fedele alle retoriche democratiche delle origini, si oppone anche alla gestione autocratica del Movimento: a Rimini litiga con Di Maio, appena nominato lider maximo, e rifiuta di salire sul palco. Per poi tornare nei ranghi, come sempre. Se Fico è della Napoli bene, del Vomero, Di Maio è nato e cresciuto nella periferia industriale di Napoli dominata dalla Fiat di Pomigliano, con un padre dirigente locale di An. Studi svogliati, allergia ai congiuntivi ma tanta voglia di fare carriera.
Due profili e due visioni del mondo. Del resto il Movimento ha spesso vissuto di dualismi sin dalla nascita. Se Beppe Grillo è motore, megafono e showman, Gianroberto Casaleggio si presenta come un visionario pragmatico e un po' nerd, perfetta rappresentazione dell' ambivalenza originaria dei 5 Stelle, mix irrisolto di scapigliatura iconoclasta e tecnocrazia normalizzatrice.
Coppia agli antipodi anche quella tra Alessandro Di Battista e Luigi Di Maio. Due personalità emerse quasi naturalmente dalla massa dei peones, non senza l' aiutino di Grillo e Casaleggio. Di Battista incarna l' anima guevarista e descamisada del Movimento, il battitore libero, trascinatore di folle; Di Maio, non appena mette piede a Montecitorio, indossa già la grisaglia del potere.
Per mesi si favoleggia di una rivalità tra i due. E in effetti la rivalità c' è, almeno quando non era chiaro chi fosse l' Eletto, scelto per guidare la traversata del Movimento dai ruscelli impetuosi dell' opposizione al mare aperto del governo gialloverde. Un patto sancisce la tregua, con la rinuncia a candidarsi di Di Battista, la sua missione da «reporter» nelle Americhe, e l' incoronazione di Di Maio a leader assoluto. Patto che non impedisce al più amato del popolo dei 5 Stelle di intervenire a distanza, con prese di posizioni durissime, non sempre in linea con le posizioni ufficiali M5S. Come quando spiega che «Tap e Tav sono opere stupide».
Poco tempo dopo, Di Maio firma un altro patto di non belligeranza, questa volta con Fico. Prima delle elezioni, il leader delle minoranze ottiene garanzie sulle liste e soprattutto ha il via libera per guidare Montecitorio. Qualche settimana di luna di miele, poi Fico comincia a farsi sentire, grazie all' autorevolezza istituzionale ma anche al sostegno di quella parte del Movimento, soprattutto del Sud, che ha accettato malvolentieri il patto con la Lega. Di Maio non abbozza e - forte di un ruolo importante nel governo - risponde a tono: «Fico ha tutto il diritto di esprimere la sua opinione, ma il governo è compatto sulla linea Conte». Il duello (o gioco delle parti) continua.
di maio ficomigranti a bordo della diciotti
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