DAGOREPORT - NON TUTTO IL TRUMP VIENE PER NUOCERE: L’APPROCCIO MUSCOLARE DEL TYCOON IN POLITICA…
Fulvio Abbate per www.linkiesta.it
Grazie Gianfranco Miccichè, parole come pietre, parole come panelle, così le tue, definitive, pronunciate verso Matteo Salvini sul caso dei migranti tenuti in ostaggio sulla “Nave Diciotti”. Grazie pure di essere salito a bordo, per portare indumenti puliti alle ragazze, e ancora per avere ricordato che c’eravate una delegazione di tutti i partiti dell’Assemblea Regionale Siciliana, ma non i 5 stelle, e infine per avere ribadito il tuo pensiero su Salvini, “uno stronzo” (sic).
Inarrivabile, il mio amico Gianfranco, solo lui è riuscito infatti, attraverso un’ars retorica ignota ad altri, politici e non, degna delle chiose filosofiche serali pronunciate dai migliori ragazzi palermitani al “Baretto” di Mondello, a rispondere al titolare del Viminale, in nome del rispetto umano e della difesa della dignità e del diritto. Le parole di Frisco-Gianfranco Miccichè, Presidente dell'Assemblea Regionale Siciliana per Forza Italia e già ex leader di Grande Sud, eccole per esteso: “Salvini, dici di non temere l'intervento del Presidente della Repubblica, quello del Primo Ministro, o quello di un Procuratore. Io non ti auguro un'indagine per sequestro di persona.
Ti auguro di riuscire a provare vergogna. Non so come tu riesca a dormire al pensiero di quanta sofferenza si stia procurando nel tuo nome. Salvini, non ti stai comportando da Ministro di una democrazia occidentale, civile: non stai difendendo i confini d'Italia, perché persino l'ultimo dei soldati in guerra avrebbe pietà di un civile inerme, ferito, indifeso. Salvini, non agisci così perché intollerante o razzista. Perché nel lasciare 150 persone per tre giorni in balìa di malattie e stenti su una nave non c'entra niente la razza o la diversità, c'entra l'essere disumani, sadici. E per cosa poi, per prendere 100 voti in più? Salvini, fattene una ragione, non sei razzista: sei solo stronzo”. Il primo a segnalarmi queste sue parole è stato un altro amico, Bobo Craxi, con un messaggio dove si chiedevano “applausi per il compagno Frisco”.
Non una di più, non una di meno, parole fosforescenti, perfette, parole come pietre, parole, appunto, come panelle, di più, parole come panelle e crocchè. Chiarezza etica che sembra in questo momento perfino surrogare l’assenza di una vera opposizione visibile, in grado di fare da barriera al razzismo leghista, forse endemico nazionale, addirittura una sinistra che sappia pronunciare le parole, reimpossessarsi del “carissimo amico” della democrazia progressiva che dovrebbe essergli proprio, insieme alle bandiere sempre e comunque rosse.
Dico così, e intanto, perdonate l’andamento letterario sciasciano della riflessione, mi torna in mente proprio Frisco, tra via Tavola Tonda e piazzetta Meli, a Palermo, dov’era la sede degli anarchici, Gianfranco, no, lui assai più prossimo a Lotta Continua, lì con Vincino, Giuseppe Barbera, Frisco ragazzo di lotta e di mondo, camicia azzurra di lino, uomo davvero di mondo, e ancora, anni dopo, Frisco uomo di governo con Berlusconi, un tradimento, per alcuni, inaccettabile, e poi addirittura Frisco protagonista di quel 61 a 0, tutti i collegi elettorali siciliani tinti d’azzurro, lo stesso della camicia, sempre più uomo di mondo, palermitano nel mondo, Frisco, dunque, console generale, meglio, luogotenente generale del Regno di Forza Italia in terra di Trinacria, con Berlusconi che gli consegna idealmente insegne e bastone di comando, alla Fiera del Mediterraneo, già regno delle prime crêpes al “Grand Marnier” lì scoperte dai palermitani, Frisco solenne come neppure, che so?, Hermann Göring in alta uniforme, Silvio che pronuncia il suo nome “Gianfranco, Gianfranco” con soddisfazione, come avesse davanti un quadrifoglio più che un leader locale, forse, e lì Frisco entra forse nell’album della storia patria politica italo-sicula, accanto a Sturzo, Scelba, Bernardo Mattarella (padre), Restivo, Li Causi, forse anche Salvo Lima.
Ma se me l’avessero detto quando insieme frequentavamo il bar “La Cuba” di Villa Sperlinga, tra scrittori d’avanguardia del Gruppo 63 come Gaetano Testa, spinellari, baby sitter, e, ahimè, nel tempo, di tossici di eroina, cioè quando, metti, John Lennon cantava “Mind Games”, già, mi avessero mostrato dentro la sfera di cristallo Gianfranco seduto sul banco del governo da viceministro, avrei pensato a un trucco, un’illusione ottica, e invece, si trattava proprio di lui, era Frisco nostro, e ormai anche di Silvio, davvero lui. Tanto stupore perché, almeno inizialmente, molti di noi, suoi amici e spettatori del suo passeggiare, ritenevamo che a Frisco bastasse essere un “flaneur”.
Frisco, come contrazione di San Francisco, West Coast, Crosby, Still, Nash e Young, e Kerouac sulla strada verso Sausalito e Ferlinghetti con la sua libreria “City Lights”.
Sia detto senza offesa, ma la maggior parte dei testimoni d’allora nulla avrebbero scommesso su Frisco professionista, qualunque fosse il ramo d’impiego. Ritenevano l’uomo un po’ “montato” e “convinto”, naturalmente colmo di sé per desiderare una carriera banalmente borghese, per costruirsi un’ambizione; molto meglio immaginarlo in maniche di camicia e persol nei locali già menzionati, gli amici e le amiche intorno, a parlare di questo o di quello, la vita pura e semplice. Oppure, sempre lì a Mondello, al circolo “Lauria”, o magari con gli amici di Lotta Continua tra Pantelleria, Levanzo o le Eolie, così quando Mauro Rostagno e compagni avevano sede in piazza Rivoluzione, accanto all’Hotel “Patria”, tempio della cucina siciliana oggi perduto.
Siccome gli amici mai vanno dimenticati, Vincino, appena Frisco ebbe le prime pubbliche glorie, nel ‘95, prese a pubblicare i suoi numeri privati di cellulare e perfino la perfida storia delle cornicette marocchine imbottite di “merce”, così quando i ragazzi della migliore Palermo si facevano le canne se non di peggio.
D’altronde, già a metà anni Settanta, e Frisco aveva superato la ventina, raccontando di Palermo, “L’Espresso” titolò: ‘“Dopo la lotta, verrà la festa continua”. Voleva dire che Palermo sbaraccava la stagione di battaglie politiche in anticipo sull’Europa intera. Verranno lì anche gli “arancioni”, seguaci del santone Bagwan, detto oggi Osho. Non mi sembra però che Frisco sia mai stato sfiorato dalla voglia di trasferirsi a Poona o in Oregon per stare vicino al maestro che metteva insieme Tantrismo, Wilhelm Reich e Freud.
migranti a bordo della diciotti
Quanto al resto, il contesto mostra anche le vinerie, bisogna però pure dire che Frisco, al contrario di altri, sia detto per onestà intellettuale, mai allora dette l’impressione di consacrarsi al bicchiere di “Mateus” in una Palermo imbattibile per promiscuità, figli dell’aristocrazia e figli della rara borghesia imprenditoriale, teatranti, Gigi Burruano, giornalisti etilisti e “malacarne”, tutti lì a dare luce e chiacchiere ai pomeriggi a fondo perduto.
Come Pinocchio, infatti, un certo giorno, Micciché si guarda allo specchio e scopre d’essere diventato adulto. L’incontro con Marcello Dell’Utri gli darà diritto al posto fisso a Publitalia. Deve essergli costato, non c’è alcun dubbio, abbandonare i panni di Frisco per conquistare altri obblighi, gli incontri - sai che camurria! - con Berlusconi, il capo.
Molti suoi amici di quei giorni, quando Frisco è diventato il “viceministro Gianfranco Micciché”, l’uomo del 61 a 0, gli hanno tolto il saluto, soprattutto, così dicevano, per un fatto di coerenza politica; però quando è venuta fuori la storia di un suo eventuale coinvolgimento in una storia di coca, a Palermo dicevano soltanto “Giù le mani da Gianfranco, non è giusto,” e senza ironia.
Forse in questo caso, già che siamo in tema, occorrerà raccontare la storia vera del funerale del vecchio barone, come ho già fatto in un libro che aveva la pretesa di riassumere la singolarità palermitana. Al momento della tumulazione, al cimitero dei Rotoli, Toti, caro amico del patrizio estinto si rivolge così ai convenuti: “Secondo voi, a Bebè, in che modo farebbe piacere essere ricordato?” E’ un attimo, quando un altro dei presenti, scorta una lapide di marmo nero lucido, prepara una pista, arrotola una banconota e dà il primo tiro, gli altri faranno lo stesso. “Ciao barone, non sai che ti stai perdendo, addio”, salutano infine commossi. Il minimo nella città di Fulco di Verdura.
Infine oggi. Da una parte Frisco, dall’altra Salvini. Bene, d’improvviso Frisco, da Presidente dell'Assemblea Regionale Siciliana, scuote la testa, pronuncia un “minchia, non si può!”, si solleva come nessun altro, cerca le parole esatte da scagliare verso la miseria appunto di Matteo Salvini, queste subito gli giungono, gli giungono alle labbra in primo luogo da tutto ciò che abbiamo provato a dire e a raccontare di lui, dalla sua sapienza di uomo di mondo, certo che gli esseri umani, assodati i propri limiti, non possono comunque fare schifo fino in fondo, c’è di mezzo il ritegno da contemplare, e questo non dovrebbe conoscere né confini né bandiere, è un istante e Gianfranco Miccichè, detto Frisco, trova il vento della “Favorita” sul viso quando in moto si scende verso il mare, la spiaggia, non è proprio una battuta, quella che solleva, semmai molto di più, è una pietra tombale che cancella ogni possibile equivoco su un fatto dirimente: non si gioca sulla vita degli altri, è da miserabili, anzi, è da stronzi, punto. Ora, con lui la politica ritrova un vero umanesimo, così all’ombra di Palazzo dei Normanni e Palazzo d’Orléans. Frisco, sei tutti noi che abbiamo provato a dare un nome esatto alle cose passeggiando in via Libertà.
FULVIO ABBATElaura boldrini a bordo della diciotti 1laura boldrini a bordo della diciotti
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