DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
Alessandro Barbera per "La Stampa"
La premessa è che il governo duri: se c'è un progetto che ha bisogno di tempi lunghi e forza politica è quello delle privatizzazioni. Nel discorso di insediamento alle Camere Letta non ne fece cenno, convincendo molti che quella fase fosse considerata definitivamente chiusa. Nelle ultime settimane il clima è invece cambiato.
Non si tratta solo del Pdl, che pure di privatizzazioni ne ha fatte poche e da tempo propone un piano monstre. Anche nel Pd è maturata l'idea che occorre ripartire da lì, l'unica strada che negli Anni Novanta ci permise di far scendere il debito pubblico fino alla soglia del 100% del Pil: vendere parte degli oltre cinquecento miliardi di patrimonio disponibile, in immobili e aziende. Parlare di dismissioni significa poi dare un segnale di stabilità all'esterno, un orizzonte lungo al lavoro del governo.
Ecco perché ieri al vertice di maggioranza fra Letta, Alfano, Saccomanni e i capigruppo dei partiti si è parlato a lungo di questo. Spiegava Brunetta: «In autunno il premier farà una sorta di road show per spiegare ai mercati come l'Italia attaccherà il debito pubblico, una strategia che si basa sulla valorizzazione e le dismissioni del patrimonio pubblico». Da Palazzo Chigi confermano: «Stiamo lavorando». In effetti sul tavolo di Letta c'è un appunto preparato dal Tesoro. E le indicazioni sono tutt'altro che generiche.
Prima indicazione: dividere le partecipazioni fra strategiche e non. Le quote statali delle due grandi aziende energetiche, Eni ed Enel, sono considerate incedibili. In questo caso lo Stato è già sotto al 30%, inoltre ragioni geopolitiche e di interesse nazionale (così dicono al governo) ne sconsiglierebbero la vendita.
Tutte le altre partecipazioni sono considerate - almeno in parte - potenzialmente cedibili. Una lista completa ancora non c'è, ma nella testa di Letta e dei suoi ministri ce ne sono alcune più cedibili di altre. La prima è quella in Fincantieri, un dossier che il premier conosce molto bene: durante il secondo governo Prodi, nel 2006-2007, fu proprio lui - allora sottosegretario alla presidenza - a dover fare i conti con il niet dei sindacati interni, e in particolare della Cgil, al progetto di cessione del 50% dell'enorme armatore pubblico.
Le altre due aziende in cima ai pensieri del governo sono Ferrovie e Poste entrambe ancora pubbliche al 100%. La prima, dopo la divisione fra Trenitalia e Rfi, e con l'arrivo del concorrente privato Italo, è pronta per essere separata e messa sul mercato. La privatizzazione delle Poste non è mai stata presa seriamente in considerazione, ma l'apertura della concorrenza nel settore, le direttive europee e la decisione del governo di Londra di mettere in vendita Royal Mail hanno cambiato completamente lo scenario.
C'è un però: per fare buone privatizzazioni ci vogliono reti - così si dice in gergo tecnico «neutrali». Ne sa qualcosa chi la concorrenza ha iniziato a farla subendo la forza dell'operatore pubblico proprietario o azionista dell'infrastruttura. à il caso degli sgambetti subiti da Italo e Arenaways per iniziativa delle Ferrovie.
Ecco perché, complice il riassetto Telecom (l'altra grande azienda insieme a Ferrovie ancora proprietaria della sua rete), il governo intende procedere rapidamente alla creazione di una grande società delle reti, un progetto al quale lavora da tempo la Cassa depositi e prestiti che ne sarà azionista di maggioranza. Sotto quel cappello finiranno tutte le grandi infrastrutture: le reti del gas e della luce di Snam e Terna (la prima già ceduta alla Cassa, la seconda oggi quotata e in parte sul mercato), i binari di Rfi, i fili e i tubi della Telecom.
L'altro grande filone del progetto governativo riguarda gli immobili. In questo caso le cose procederanno molto velocemente. L'idea è quella di far ripartire in poche settimane la cessione ai Comuni dei beni indicati dal decreto sul federalismo demaniale di Berlusconi e Tremonti. Tutto si era fermato per via dei soliti intoppi burocratici e per via dell'obbligo di avere l'ok al trasferimento dei beni tutti insieme.
Al Tesoro stanno mettendo a punto un emendamento (sarà presentato al «decreto del fare») che permetterà di trasferire i beni uno ad uno. La norma prevede inoltre, quando venduti, che il 20% del ricavato venga trasferito allo Stato e portato immediatamente a riduzione del debito pubblico. Non sarà la svolta, ma - dicono a Palazzo Chigi «da qualche parte bisogna iniziare».
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