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DAGOREPORT – SE C’È UNO SPIATO, C’È ANCHE UNO SPIONE: IL GOVERNO MELONI SMENTISCE DI AVER MESSO…
1 - ALLA GUERRA PRIMA DEL VOTO LA SCOMMESSA DI NETANYAHU APRE IL FRONTE DELLE ELEZIONI...
Alberto Stabile per "la Repubblica"
Il Consiglio dei Nove, il gabinetto ristretto che aveva deciso in gran segreto la guerra contro Hamas, s'è ritrovato durante la notte per valutare la tregua. Perfino Avigdor Lieberman, l'ultradestro ministro degli Esteri, dice di preferire a questo punto una "soluzione politica".
L'opinione pubblica comincia a farsi sentire. Gli editorialisti temono che l'operazione di terra non serva che a versare altro sangue e stavolta, inevitabilmente, anche quello dei soldati israeliani. I gruppi pacifisti si mobilitano contro "la guerra elettorale" di Netanyahu. Il premier che s'è vantato di non aver mai mobilitato l'esercito durante il suo mandato comincia a sentire la pressione.
Eppure, con l'84% degli israeliani al proprio fianco, secondo un freschissimo sondaggio di
Haaretz, e la totalità della classe politica al seguito, Benyamin Netanyahu potrebbe trasformare il tempo che resta fino alle elezioni del 22 gennaio in una marcia trionfale. Ma c'è un ostacolo assai rischioso sul suo cammino: anche se nelle ultime ore si sono moltiplicate le voci di una tregua imminente, la seconda guerra di Gaza contro Hamas non è finita.
Il Consiglio dei Nove (lui, Barak, Lieberman, il ministro dell'Interno Ishay, quello degli Affari strategici Moshè Yaalon, più il capo di Stato Maggiore Katz e i responsabili dei 3 principali servizi di sicurezza) devono trovare il mondo di uscirne senza dare l'impressione di una precipitosa marcia indietro.
Si contavano i minuti mancanti all'invasione, i carri armati avevano già acceso i motori, ma piuttosto che il campo di battaglia di Gaza, s'è aperto quello che un grande giornalista israeliano, Nahum Barnea, ha definito il "terzo fronte" della guerra: non quello in cui i due nemici si affrontano armi alla mano, né quello interno delle vittime civili, ma il fronte politico, dove le operazioni militari producono i loro effetti e incidono anche sulle fortune personali di chi le ha decise.
«In termini politici - sostiene Barnea - una manovra militare è sempre un rischio. Quello che appare come un'azione gloriosa può trasformarsi in un disastro elettorale». In parole povere, la sua "guerra elettorale" Netanyahu l'ha decisa, ordinando l'uccisione del capo militare di Hamas, Ahmed Jaabari, adesso è costretto a cercare una tregua altrettanto elettorale, possibilmente alzando le dita a V in segno di vittoria. Guerra ed elezioni, dunque, una coincidenza che in un paese come Israele s'è presentata molte volte.
Per restare nell'arco dell'ultima generazione, si potrebbe cominciare citando il caso delle elezioni del giugno 1981 che videro il leader laburista Shimon Peres, l'attuale presidente, sfidare il premier conservatore Menachem Begin. Il voto era stato fissato per la fine di giugno. Peres conduceva nei sondaggi. Tre settimane prima, il 7 giugno Begin ordinò l'Operazione "Babilonia", con cui venne chiamato in codice il bombardamento del reattore nucleare iracheno di Osyrak. Begin stravinse il duello elettorale.
Nel 1996 Shimon Peres, succeduto provvisoriamente a Yitzhak Rabin, ucciso il 5 Novembre dell'anno prima, deve affrontare l'astro nascente del Likud, un Netanyahu che non ha ancora 45 anni. Il paese è sconvolto da un'ondata di attentati suicidi, la strategia di Hamas contro lo Stato ebraico, ma anche contro gli accordi di Oslo firmati da Yasser Arafat. Per tacitare l'opinione pubblica allarmata, l'11 aprile Peres ordina l'operazione "Grapes of Wrath", i frutti dell'ira, contro gli Hezbollah libanesi.
Ecco un esempio di quel fattore di rischio, d'imprevedibilità della guerra di cui parla Barnea. Il 18 Aprile l'artiglieria israeliana bombarda il campo profughi di Cana, gestito dalle Nazioni Unite, muoiono 111 rifugiati, e l'operazione si conclude in un disastro politico-diplomatico. Netanyahu vince per soli 15mila voti.
Neanche il consenso popolare che accompagna, all'inizio, certe operazioni militari può essere considerato una garanzia. All'inizio della Seconda guerra del Libano (luglio-agosto 2006), la decisione presa dal primi ministro del tempo, Ehud Olmert, godeva dell'80% dei consensi. Un mese dopo di quel consenso non c'era più traccia. Pesava, invece, la morte di oltre 100 soldati.
Talvolta, la "tenuta" politica non è garantita neanche in caso di vittoria. La prima guerra contro Hamas e contro Gaza, voluta da Ehud Olmert, non segnò certo una sconfitta militare per Israele. Ma i risultati sul piano dell'immagine furono disastrosi. Allora, come ora, i drammi delle vittime civili documentati dalle tv commossero e indignarono l'opinione pubblica. Il governo israeliano dovette acconsentire al una tregua che non ha certo risolto il conflitto, né diminuito la capacità offensiva di Hamas. E da allora la stella di Olmert cominciò a tramontare.
2 - SHARON JR: "RADERE AL SUOLO GAZA COME GLI AMERICANI CON HIROSHIMA"
Da "la Repubblica"
«Radere al suolo Gaza»: è l'unica opzione per sconfiggere Hamas secondo Gilad Sharon, figlio dell'ex premier israeliano Ariel Sharon. «Gli americani non si sono fermati a Hiroshima: dato che i giapponesi non si stavano arrendendo abbastanza in fretta, hanno colpito anche Nagasaki», ha scritto in un editoriale sul Jerusalem Postche ha scatenato un vespaio di commenti sui social network.
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