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CAMERA ARDENTE DI GERARDO DAMBROSIO ALFREDO ROBLEDO
Paolo Colonnello per "La Stampa"
«È un segno di debolezza o di forza?». È questa la domanda che circolava ieri alla Procura di Milano dopo l’intervista al nostro giornale del vicepresidente del Csm Michele Vietti che ha preso posizione a favore del procuratore Bruti Liberati. «Non vorrei finisse per trasformarsi in un boomerang», commenta un procuratore aggiunto di lunga esperienza, equidistante nello scontro tra il procuratore capo e il suo aggiunto Alfredo Robledo.
Mentre per un altro «anziano», altrettanto addolorato per come si stanno mettendo le cose, la scelta di rilasciare un’intervista su un caso così delicato, soprattutto mentre le due commissioni incaricate di dirimere il conflitto (la prima e la settima) sono al lavoro, assomiglia tanto «a un intervento a gamba tesa». Tacciono ovviamente i diretti interessati, ovvero Bruti e Robledo. Ma si può tranquillamente immaginare che mentre per il primo è un gran punto a favore, per il secondo è un siluro di dimensioni preoccupanti, sebbene si dichiari pronto «a bere fino in fondo l’amaro calice…».
Su una cosa però sembrano tutti d’accordo: la questione non è più tra il procuratore e il suo vice ma si è spostata a livello nazionale in uno scontro di correnti, da una parte, e, secondo alcuni, in una questione decisiva per l’intera magistratura dall’altra. Soprattutto in una partita per il rinnovo del Csm a luglio che dovrà poi decidere per il rinnovo delle cariche tra i vari procuratori milanesi di cui tre, proprio a luglio, sono in scadenza. E, guarda caso, si tratta di Bruti Liberati, Alfredo Robledo e Ilda Boccassini. Il che significa che il vero finale di questa storia si vedrà soltanto tra un mese e mezzo.
L’intervento di Vietti, letto in concerto con Quirinale, per altro arriva dopo che, nei giorni scorsi, dal Csm erano trapelate alcune indiscrezioni sugli orientamenti della settima Commissione, che dovrà esprimersi sulla regolarità delle assegnazioni nella Procura di Milano, paventando un documento che conterrebbe alcune critiche al capo dell’ufficio Bruti Liberati. Dei «rilievi» che, seppure senza peso specifico per l’apertura di un procedimento disciplinare o un trasferimento d’ufficio, andrebbero a incidere direttamente sulla riconferma o meno del capo della Procura per altri 4 anni.
Ed è proprio per sgombrare il campo da interpretazioni sulla titolarità dell’azione penale e dunque sulle conseguenti assegnazioni, che il vicepresidente Vietti ha ricordato ieri che «la riforma dell’ordinamento giudiziario ha concentrato nella sola figura del procuratore capo la titolarità dell’azione penale».
Ma, anche in questo caso, la questione appare più profonda e coinvolge il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale che, secondo i sostenitori di Robledo, Bruti avrebbe violato soprattutto negli asseriti ritardi dell’assegnazione dell’inchiesta Sea-Gamberale, il caso che ha dato origine allo scontro.
E che invece, per i partigiani di Bruti, sarebbe stato rispettato in conformità con le norme richiamate da Vietti. Non si tratta di una piccola bega interpretativa, ma di questioni profonde che, in questo senso, coinvolgono il principio stesso di autonomia della magistratura, garanzia fondamentale per il cittadino.
E che, suggeriscono i magistrati più anziani e di provata esperienza, sarebbe stato bene affrontare non con uno scontro all’arma bianca, poco comprensibile e facilmente strumentalizzabile, ma in un dibattito più serio e complessivo, senza lasciare morti e feriti in un Palazzo che sempre e comunque ha dimostrato di saper funzionare con efficacia e che ha promosso inchieste vitali, portate avanti da magistrati perbene che oggi, incredibilmente, si fronteggiano su barricate opposte.
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