DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
Mattia Ferraresi per "il Foglio"
Alcuni alla Casa Bianca lo chiamavano “the survivor”, il sopravvissuto, e il soprannome non veniva necessariamente pronunciato con un’accezione positiva. Le poltrone giravano, il vento cambiava, i pezzi dell’Amministrazione, anche quelli grossi e difficili da sostituire, venivano rottamati secondo il ciclo naturale del governare oppure lasciati andare per le classiche ragioni personali, i carichi di lavoro alla lunga insostenibili, divergenze troppo accentuate con il capo, scandali di qualche natura. Eric Holder è sopravvissuto a tutto questo. Mentre tutto intorno a lui crollava e veniva riedificato, lui rimaneva fermo, un pilastro di cemento armato all’interno dell’Amministrazione.
Barack Obama nel tempo ha rivoluzionato a più ondate tutti i settori del suo gabinetto, anche quello economico, forse il più bisognoso di continuità e ricette stabili per tornare a crescere. E’ cambiata la leadership del Pentagono, quella della Cia, è cambiata la squadra diplomatica, capi di gabinetto e addetti stampa si sono avvicendati, i segretari sono stati sostituiti (a eccezione di quello dell’Educazione e dell’Agricoltura, dicasteri comunque minori, con livelli di pressione politica e psicologica imparagonabili) ma il procuratore generale è rimasto incollato alla sedia.
Continuerà a essere “the survivor” anche dopo la sua dipartita – annunciata ieri dal presidente dopo che i due hanno discusso i dettagli tre settimane fa – perché nessun altro ha rappresentato come Holder la coscienza ideologica di un governo spesso costretto a ripiegare sui calcoli e sul pragmatismo.
Holder è stato il custode della visione del mondo obamiana, fatta a brandelli dalle circostanze e logorata dal day by day, e l’holderismo è diventata la versione pubblicamente spendibile dell’idea liberal di Obama. Il presidente è chiamato a tenere una postura bipartisan e a rispettare l’intricato sistema di protocolli che pertiene all’inquilino della Casa Bianca, e per questo lascia che altri dicano e facciano quello che lui può esprimere soltanto in modo edulcorato.
Questo è stato Holder per Obama. E il suo addio lascia l’anatra anche più zoppa di quanto non sia naturalmente negli ultimi anni di governo. I funzionari più invidiosi dicono che Holder è riuscito a tenere la poltrona per sei anni soltanto perché è l’unico membro del governo che ha accesso all’inner circle del presidente, il club esclusivo dei consiglieri più intimi capitanato idealmente da Valerie Jarrett.
Holder con la famiglia del presidente ci è andato in vacanza a Martha’s Vineyard, ha festeggiato i compleanni al Café Milano, è un amico e un confidente del presidente prima che un semplice uomo di governo. La moglie, Sharon Malone, e Michelle Obama sono forse anche più amiche di quanto non lo siano i mariti, elemento femminino da non sottovalutare quando si parla della gestione del potere in casa Obama.
Questo scudo protettivo spiega la longevità politica di Holder soltanto parzialmente; la custodia della purezza ideologica è dominante nel romanzo a quattro mani di Obama e Holder. L’analisi del mandato mostra che il procuratore ha esteso il raggio d’azione del dipartimento di Giustizia, sempre al centro di qualunque dossier politico: la lotta al terrorismo, le indagini sulle banche, il razzismo, il controllo delle armi da fuoco, i diritti civili – da Guantanamo a Ferguson – il commercio, il matrimonio gay, la pena di morte, la sorveglianza. Holder si è espresso su tutto con la rumorosa foga dell’attivista che non è concessa al presidente.
In un mondo dove ogni aspetto dell’esistente precipita in una delibera di tipo legale, il procuratore generale si trasforma da esecutore fedele della legge in una specie di arbitro universale delle grandi questioni sociali. La questione razziale è sempre stata la parte infiammata della coscienza di Holder, che iniziò il mandato dicendo: “Nonostante la nazione si creda orgogliosamente un melting pot, siamo sempre stati e saremo sempre essenzialmente una nazione di codardi”.
Ha criticato la Corte suprema per la legge sull’identificazione al seggio elettorale negli stati del sud, “un pretesto per togliere ai cittadini americani il loro diritto più prezioso”, ha ordinato che nei tribunali non venisse invocata la legge sul matrimonio approvata dal Congresso sotto Clinton e in seguito revocata dalla Corte, ha usato una retorica fiammeggiante per descrivere le azioni dei banchieri di Wall Street a cui ha dato la caccia con zelo, raggranellando decine di miliardi di dollari in multe sbandierate con fare populista.
Certe dichiarazioni sono indistinguibili, per tono e contenuto, da quelle di associazioni per i diritti civili e gruppi di advocacy. A Ferguson, nel Missouri, si è presentato alla folla inferocita per l’omicidio di un diciottene afroamericano innanzitutto come “uomo nero, non come procuratore generale”. Diventare l’ambasciatore de facto dell’idea liberal di Obama ha stuzzicato il senso ideale del primo procuratore generale nero, cresciuto con il perfetto curriculum liberal da brillante studente della Columbia e poi passato alla guerra ai colletti bianchi.
Quando le parcelle sono aumentate si è trovato anche a difendere i banchieri, realpolitik necessaria per poter essere contemporaneamente ariete e retroguardia di un’idea politica. Compromessi e insabbiamenti in questi sei anni di governo non sono mancati. L’agognata chiusura del carcere di Guantanamo è uscita dal reame delle possibilità e i terroristi detenuti nella base militare non verranno processati a Manhattan.
LA VILLA AFFITTATA DAGLI OBAMA A MARTHA S VINEYARD
Il procuratore si è trovato al centro degli scandali delle intercettazioni telefoniche ai giornalisti e quando si è trattato di spiegare al paese perché i banchieri responsabili del disastro non finissero in carcere ha detto: “Queste istituzioni sono così grandi che è difficile per noi indagarle senza creare un impatto negativo sull’economia mondiale”. Così la coscienza politica di Obama, il sopravvissuto della sua Amministrazione in disarmo, ha involontariamente creato l’espressione “too big to jail”.
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