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Giovanni Cerruti per "la Stampa"
L' hanno messa sul tavolo, proprio sopra lo stemma della loro Brigata, l'Aquila gloriosa di Al Riran. E quando da Bengasi la tv trasmette il battesimo della nuova Libia, alle cinque del pomeriggio, vogliono che a guardare ci sia anche lei, la pistola d'oro di Gheddafi. Salem, Hamed e Hussein se la passano, la rigirano, la baciano. E sul tavolo c'è pure la Smith&Wesson 357, «quella che aveva in mano, e tremava tutto». E poi il telefono satellitare Turaya, la sciarpa di seta color sabbia, lo stivaletto nero con la zip, il sinistro. «Ecco, guardate anche voi come è andata a finire. Grazie a noi, le Aquile di Al Riran».
Salem, Hamed e Hussein sono tornati in questo magazzino che da aprile è casa loro. Sono tre ragazzi della battaglia di via Tripoli, quella che ha liberato Misurata. Tre eroi, per la Brigata. I tre che hanno scoperto Gheddafi nel tunnel. Salem l'ha visto, Hamed l'ha bloccato, Hussein ha trovato la pistola.
Raccontano come è andata in questo pomeriggio di festa, offrendo focaccia calda, montone cotto sulla griglia, cipolle e pomodori. Da lontano li osserva e li ascolta anche Abdul Salam Saddik Shalluf, 39 anni, grossista di olive, uno dei capi della Brigata. «Noi non abbiamo niente da nascondere».
E allora comincia Salem Bashir Bakir, 27 anni, la barbetta corta e il Corano tra le mani. «Stavamo andando alla nostra postazione di Sirte, chiamata Zafferano. Erano le dieci. Abbiamo visto un gruppo di quindici persone che camminavano giù dalla strada asfaltata, verso una zona alberata. Sono entrati in una piccola casa, una stanza accanto a un pozzo. Li abbiamo circondati, eravamo a cento metri. Chi siete? Arrendetevi e rimarremo in pace. Due si sono arresi, uscendo a mani alzate. Gli altri sono usciti sparando, hanno attaccato, abbiamo avuto due morti. Ai due arresi abbiamo chiesto chi c'era. Noi non lo sapevamo».
Salem disegna sulla sabbia la sua posizione, quella della strada e del pozzo. «C'è stato lo scontro a fuoco e dalla casa accanto al pozzo sono scappati quasi tutti a nascondersi verso gli alberi. Siamo andati avanti a piedi, lungo la strada asfaltata. Io sono tornato indietro a prendere le munizioni nel nostro pickup, e dopo pochi metri ho visto uscire da quel tunnel la stoffa di un turbante appoggiata sulla canna di una pistola. Pensavo si volessero arrendere. Arrendetevi e rimarremo in pace! Una voce ha risposto dal tunnel: "Ho la gamba rotta e il mio Signore è qui ferito". Ma pensavo fosse il suo comandante».
A questo punto Salem parla lento, vuole essere sicuro che l'interprete traduca bene. Parla e mima la scena. Si accuccia e si mette la Smith&Wesson nella mano sinistra. «Io ero sulla strada, proprio sopra l'imbocco del tunnel. Non potevo stare davanti, avrei rischiato un colpo. Dall'alto ho visto uscire uno accucciato, con questa pistola che gli tremava in mano. Si è voltato all'insù. "Che vuoi? Che vuoi?", per due volte. Aveva una ferita alla fronte. Lì ho capito, e non ho capito più niente. Non parlavo, non mi muovevo. à lui. Ho messo la mano sul Corano che ho sempre in questa tasca e mi è uscito il grido: "Muammar!!!"».
Hamed Mohammed al Gazal, 21 anni, autista, capelli corti come la barbetta, è stato il più veloce ad arrivare e scherza sul suo cognome, gazzella. «Era lì in ginocchio. Ho buttato il kalashnikov e gli sono volato addosso. Era la prima volta che lo vedevo. L'ho fissato. Ho pensato a questi nove mesi di guerra. Ai miei amici morti. E lui ha risposto al mio sguardo col suo solito tono arrogante. "Cosa c'è? Cosa c'è?". Ma anch'io non riuscivo a parlare. Lo tenevo fermo e sentivo gli altri della Brigata che stavano arrivando. Siamo centocinquanta su 40 pickup, noi. E tutti gridavano: à Muammar! à Muammar! à Muammar!».
Nabil Alì Derruish, 23 anni, meccanico, è il terzo ad arrivare. «L'ho preso io e l'ho spinto fuori. Quando è uscito ho trovato questa Browning riverniciata d'oro e con queste scritte: "Rivoluzione per sempre", "Sul 1˚ settembre non tramonta mai il sole", "32˚ Reparto d'élite". Me la sono messa in tasca mentre ancora lo stavo spingendo. Era ferito alla testa e al fianco sinistro. Fuori chiamavano l'ambulanza, che era a cento metri, in fondo alla nostra colonna di pickup. Non potevamo caricarlo sul nostro, i sedili erano pieni di casse di munizioni, sul cassone c'era una mitragliatrice pesante, una ventitré».
«Così l'abbiamo messo sul cofano, mentre attorno continuavano le grida "Muammar! Muammar!" e continuava la battaglia. à arrivata dopo poco, l'ambulanza, non saprei calcolare quanto, ma saranno stati minuti. E non vorrei dire bugie, ma da quando l'ho messo sul cofano non ho visto altro, non so altro, noi delle Aquile di Al Riran non sappiamo altro». Il meccanico Nabil dal naso grosso e le orecchie in fuori parla con la pistola d'oro tra le mani: «Un signore di Tripoli venerdì ci ha offerto quasi due milioni in euro per avere questa Browning. Ma ormai è il simbolo della nostra vittoria. E resterà per sempre qui a Misurata».
«Il Magazzino dei Tunisini», è a due chilometri da qui. E Salem, Ahmed e Nabil anche ieri sono andati in quella cella dov'è ancora Gheddafi. Pure loro sanno che è stato ucciso da un colpo alla tempia, pure loro hanno visto i segni dell'autopsia sul corpo devastato. All'entrata danno mascherine per proteggere bocca e naso. E dal container, dopo un minuto, escono donne, anziani con il bastone, bambini: e chi sveniva e chi rideva, e chi sveniva e chi gridava. Poi tutti in piazza a celebrare la nuova Libia. Ma Salem, Ahmed e Nabil no, sono rimasti qui in Brigata, a raccontare la loro storia. Con la pistola d'oro che guarda le festa in tv.
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