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GRECIA - MANIFESTANTI CHE VOGLIONO RESTARE IN EUROPA
Federico Fubini per il “Corriere della Sera”
Se questo è un ballottaggio fra l’indignazione e la paura, è quest’ultima che per ora sta segnando dei punti nella piazza più simbolica di Atene: il terrore di restare fuori dall’Europa, isolati e in balìa del caos sociale e finanziario, ogni giorno che passa brucia sul corpo della società più della rabbia per i sacrifici affrontati, il debito che non smette di crescere, l’intransigenza e l’equivoco senso di superiorità dei creditori.
Ieri sera in piazza Syntagma è sfilata in massa questa paura, malgrado una pioggia battente, e il solo slogan cantato per esorcizzarla era “Evropì”: Europa. Dopo la manifestazione del “No” all’accordo proposto dai governi creditori alla Grecia di lunedì notte, guidata dal premier Alexis Tsipras, ieri sera è toccato al fronte del «Sì» chiamare il proprio popolo in piazza Syntagma.
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Attorno al parlamento greco si sono raccolte persone che non avrebbero mai immaginato di trovarsi in una dimostrazione di strada, il fischietto in bocca e la bandiera in mano. Uomini e donne in abiti borghesi, gente che non avrebbe mai immaginato di vivere in una capitale segnata da banche chiuse, farmacie prese d’assalto e scaffali dei supermercati sempre più sguarniti.
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A Syntagma e in lunghi tratti dei viali adiacenti, ieri sera si è riversato il popolo dei colletti bianchi: liberi professionisti impoveriti, insegnanti e ricercatori precari, i laureandi che competono per una borsa di studio che li porti finalmente via dalla Grecia. Sopra le teste si vedevano molte bandiere elleniche (come la sera prima), poche bandiere blu con le dodici stelle dell’Unione Europea, ovunque un cartello con lo slogan «Sì alla Grecia nell’Europa» ma soprattutto — apparentemente — più folla che alla manifestazione del «No».
La polizia aveva stimato 17 mila in piazza Syntagma a sentire Tsipras la sera prima, ma 20 mila per questo fronte filoeuropeo privo di un leader con cui potersi identificare. Pochi ieri stravedevano per Antonis Samaras, l’ex premier conservatore espresso dalle élite degli ultimi decenni. Nessuno ammirava la cancelliera Angela Merkel, o aveva la minima considerazione del presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker.
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I loro leader erano la paura, e il senso di appartenenza: all’Europa, allo stato di diritto, a un mondo dove la libertà di viaggiare o godere di prezzi stabili erano sentiti come diritti naturali, fino a poco tempo fa. Ma neanche la folla del «Sì» ha l’esclusiva del panico. Oggi in Grecia è ovunque, fin dentro il governo e ieri lo si è visto: Tsipras e il suo ministro delle Finanze Yanis Varoufakis hanno tentato un’ennesima mossa verso Bruxelles, che ha finito per tradire il desiderio di dare sempre la colpa ad altri e per tradire un senso di insicurezza. Non c’entra tanto la possibilità, concreta ma non scontata, che il «Sì» alla fine prevalga al referendum di domenica e costringa il governo a correre verso un rimpasto o nuove elezioni.
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Il problema di fondo è che in Grecia non stanno chiudendo solo le banche. È l’intera economia del Paese che sta smettendo di funzionare con una rapidità angosciante. Nella struttura della vita quotidiana si aprono ormai crepe sempre più profonde e vistose. Ieri uno dei principali fondi pensione privati, quello dei liberi professionisti, ha comunicato che verserà ai suoi iscritti solo la metà dei prossimi assegni mensili.
Molti salari questo mese non sono stati pagati. Un gran numero di aziende ha dato istruzione ai propri contabili di non versare allo Stato l’imposta sul valore aggiunto sulle proprie vendite. E le banche, anche ora che sono chiuse al pubblico, restano schiacciate da una massa di prestiti non rimborsati che sale ogni settimana verso la metà del totale degli impieghi. Anche in caso di vittoria del «Sì», non sarà facile farle riaprire martedì prossimo come promesso: non prima di un nuovo passaggio politico ad Atene e fra la Grecia e i suoi creditori.
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Tsipras senz’altro lo sa. Sa che la sabbia nella clessidra scorre contro di lui, specie ora che il Paese è in default verso il Fondo monetario internazionale e privo della rete del piano di salvataggio (dal quale poteva ricevere ancora 16 miliardi di euro). È per questo che, sotto la superficie della propaganda, qualcosa si muove.
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Il presidente cipriota Nikos Anastasiades continua una navetta diplomatica fra Tsipras e Merkel, visto che i due da soli faticano a comunicare. E dall’europarlamento arrivano ripetuti sondaggi a Stavros Theodorakis, il leader del partito filo-europeo “To Potami” (il Fiume), per capire se potrebbe mettere il suo 6% al servizio di una coalizione più moderata guidata da Tsipras stesso. Theodorakis ovviamente vuole, così come anche i socialisti del Pasok: la condizione è che il premier si liberi degli alleati della destra nazionalista e dell’ala sinistra più estremista dentro Syriza. Potrebbe succedere all’indomani di una vittoria del «Sì», sempre che in Grecia qualcosa vada ancora in modo anche vagamente prevedibile.
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