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Stefano Livadiotti per "l'Espresso"
Un aneddoto racconta bene chi è Vincenzo Fortunato. Risale all'immediata vigilia dell'insediamento del Berlusconi IV, nel maggio del 2008. L'ex magistrato del Tar ha appena lasciato la poltrona di capo di gabinetto al ministero delle Infrastrutture, guidato fino ad allora da Antonio Di Pietro. E sta per tornare, con lo stesso incarico, all'Economia, di nuovo in squadra con Giulio Tremonti, proprio come nel 2001.
à ormai sera quando, scortato da un finanziere, si presenta all'ingresso del palazzo dei Monopoli di Stato, in piazza Mastai, e fa sbarrare l'intero secondo piano (quello nobile), consegnando le chiavi al piantone: l'assegnazione delle stanze, che a ogni cambio di governo è oggetto di blitz da parte dei nuovi inquilini, la deciderà lui con i più stretti collaboratori. Come dire: i sottosegretari possono attendere.
Il più potente e temuto dei mandarini del sottogoverno italiano (insieme ad Antonio Catricalà , sottosegretario alla presidenza del Consiglio e suo vicino in tribuna d'onore alle partite dell'amata Roma) è fatto così. A parte qualche capatina nella palestra della Guardia di Finanza, l'ex magistrato del Tar non ha hobby. Si tiene alla larga dai salotti romani. E le vacanze le passa nella tenuta in Basilicata dove produce l'olio e i mandarini che regala ai pochi amici a Natale. L'unica cosa che gli piace davvero è il potere.
Che esercita senza andare troppo per il sottile. E senza guardare in faccia nessuno. O quasi. Se un ministro di seconda fascia vuole parlare con lui (che, metodicamente, non prende telefonate) deve andare a trovarlo nel suo ufficio. Dove l'inflessibile capo della segreteria, Rita Ruffini, non gli risparmia l'anticamera. "Questo Fortunato è un cafone maleducato", si lamentava, al telefono con Luigi Bisignani, nell'ottobre del 2010, l'allora titolare dell'Istruzione Maria Stella Gelmini, uno dei tanti nemici che Fortunato si è fatto nel Pdl (ma anche tra i nuovi ministri più d'uno si è già lamentato di lui con palazzo Chigi).
Così lo scorso novembre, quando Mario Monti, ventiquattr'ore dopo aver ottenuto la fiducia, l'ha chiamato al telefono nella sua casa romana per chiedergli di restare al suo posto al vertice del ministero che avrebbe retto ad interim, Fortunato si è fregato le mani. Con il premier chiuso a palazzo Chigi o in giro per il mondo (in via XX Settembre pare si sia presentato un'unica volta) e il direttore generale Vittorio Grilli (con cui ha un discreto rapporto) promosso al rango di vice ministro e non sostituito, non c'è più nessuno in grado di opporsi ai suoi diktat.
Non certo il ragioniere generale dello Stato, Mario Canzio, che Fortunato guarda dall'alto in basso. E non più Marco Milanese, l'unico capace di tenergli testa, che ha dovuto togliere il disturbo e s'è vendicato lanciando nebulose accuse all'arci-nemico.
Riservatissimo (non esiste una sua biografia completa), poco propenso ad ascoltare i consigli degli altri, Fortunato (figlio d'arte: suo padre è stato a palazzo Chigi con Emilio Colombo) ha lavorato con ministri di tutti i colori (da Augusto Fantozzi a Franco Gallo, da Vincenzo Visco a Ottaviano Del Turco, da Antonio Di Pietro a Giulio Tremonti e Domenico Siniscalco), trascinandosi sempre dietro un manipolo di fedelissimi: Italo Volpe (oggi all'ufficio legislativo), Marco Pinto (ex capo del legislativo, poi passato con Visco e per questo oggetto di un veto di Tremonti, ripescato da Fortunato come direttore di gabinetto), Gaetano Caputi (da poco approdato alla Consob).
Bipartisan nei rapporti politici (Ugo Sposetti è il suo ponte con il Pd), gran collezionista di incarichi (nel 2005 ha dichiarato un reddito di 788.855 euro), Fortunato esercita un formidabile potere nel Consiglio di Stato e Tar. Un'influenza consolidata negli anni in cui è stato membro del Csm della magistratura amministrativa. E che gli è costato l'unico scivolone della carriera, quando ha partecipato alla nomina di una commissione che ha dichiarato sua moglie vincitrice di un concorso al Tar.
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