DAGOREPORT – CHI È STATO A FAR TRAPELARE LA NOTIZIA DELLE DIMISSIONI DI ELISABETTA BELLONI? LE…
Sebastiano Messina per “la Repubblica”
Il grande assente era lui, Romano Prodi, che il giorno prima aveva salito le scale di Palazzo Chigi, sei anni e mezzo dopo aver passato la campanella a Silvio Berlusconi. Ma a parte l’ex premier, affondato l’anno scorso dai 101 franchi tiratori quando sembrava a un passo dal Colle, ieri c’erano tutti i volti del toto-presidente, nel salone dei Corazzieri. «Guardandomi intorno, ho avuto la netta sensazione che in quella sala fosse seduto il prossimo capo dello Stato», sussurrava un parlamentare della maggioranza mentre faceva la fila per ritirare il cappotto al guardaroba.
stefania giannini nunzia de girolamo
E forse aveva ragione, perché erano almeno una dozzina i papabili venuti a sentire l’ultimo messaggio di Napolitano alle alte cariche dello Stato (cerimonia disertata anche quest’anno dai grillini e dai leghisti).
Il primo, Pietro Grasso, era seduto proprio accanto al presidente, e a chi ascoltava il suo discorso d’auguri all’inquilino del Quirinale è sembrato di cogliere un tentativo di solennità, una prova generale in vista della delicatissima supplenza che ne farà — dopo le dimissioni di Napolitano — il presidente ad interim. Da quella posizione, forse chiunque si lascerebbe accarezzare da una segreta speranza. Perché non dovrebbe farlo chi oggi occupa la seconda carica dello Stato, e domani — sia pure provvisoriamente — addirittura la prima?
renzi grasso napolitano boldrini
Mentre Napolitano parlava, Grasso guardava davanti a sé, e chissà se si domandava chi scenderà in pista per il prossimo settennato, osservando per esempio il volto pensieroso di Pier Carlo Padoan, seduto in prima fila (posto riservato dal cerimoniale ai ministri più importanti: gli altri hanno dovuto accontentarsi della seconda fila).
Padoan, che è schivo di carattere, non ha detto una sola parola, e non sapremo mai se mentre socchiudeva gli occhi osservando l’altorilievo rinascimentale che sovrastava Napolitano (“La lavanda dei piedi” di Taddeo Landini) rifletteva sul peso che potrebbero avere a un certo punto il suo prestigio internazionale e la sua indipendenza dal Pd.
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Accanto a lui, indaffarato a chiacchierare sottovoce con il Guardasigilli Orlando, c’era Paolo Gentiloni, un altro ministro il cui nome rimbalza puntualmente quando si parla di Quirinale. Lui è uno dei pochi renziani dei quali all’estero si conoscono i nomi, anche se non è certo un indipendente: ma non è detto che questo non si riveli un punto a favore, se la partita dovesse prendere una certa piega.
Con gli occhialini inforcati come al solito sul naso, Giuliano Amato ascoltava il discorso insieme agli altri giudici costituzionali, e faceva probabilmente il ragionamento opposto, domandandosi se l’endorsement a freddo di Berlusconi («Al Quirinale voteremmo uno come lui») gli impedirà definitivamente di entrare nella rosa dei candidati, dopo che i grillini già l’altra volta avevano lanciato una campagna contro di lui per le pensioni che cumula con vitalizi e indennità.
poletti martina padoan orlando gentiloni
A Walter Veltroni il cerimoniale ha riservato un posto a metà sala, subito dietro a Enrico Letta che sarebbe anche lui un candidato se non si trovasse nella situazione in cui era Saragat nel 1948: molti facevano il suo nome, quasi tutti dimenticavano che non aveva ancora compiuto i 50 anni richiesti dalla Costituzione.
Veltroni, che poi è uscito dal palazzo insieme a Piero Fassino — suo successore alla guida dei Ds — quella soglia l’ha invece varcata da nove anni, ma sa bene che nella corsa al Quirinale, come nel Conclave, chi entra papa esce cardinale, e dunque non dice una sola parola sull’argomento. Però deve avergli fatto piacere, quell’invito categorico di Napolitano a «non attentare in qualsiasi modo alla continuità di questo nuovo corso», perché lui è uno dei pochi che certamente garantirebbe quella continuità.
Una beffarda regola del cerimoniale ha fatto sedere l’uno accanto all’altro Massimo D’Alema e Gianfranco Fini, invitati non per le cariche ricoperte in passato ma come presidenti di due fondazioni culturali (e dunque come rappresentanti della società civile).
L’ex premier entrò in gara nel 2006, ma subì la stessa sorte di Fanfani, di Nenni e degli altri leader che ci avevano provato prima di lui: ormai non ci spera più, e ieri — aspettando l’arrivo di Napolitano — mostrava a Fini le ricche decorazioni dorate del soffitto, intorno al simbolo di Casa Savoia che è ancora lì.
Triste era invece lo sguardo di Mario Monti, seduto vicino al presidente dei senatori Pd Luigi Zanda, forse al pensiero che se non avesse ceduto alle lusinghe di Casini sarebbe stato lui il candidato naturale, l’anno scorso: ma ormai quel treno è passato. Del resto è passato anche per Casini, leader di un centro sempre più sottile, ed è passato anche per la signora che gli stava a fianco: Anna Finocchiaro, nome di punta della squadra dalemiana, otto anni fa tra i papabili come primo presidente donna.
Ma alla vecchia ruggine con Renzi si sono aggiunti i guai giudiziari di suo marito, sotto processo per truffa aggravata per un appalto nella sanità, e la senatrice siciliana ieri era tra quelli che scendevano le scale del Quirinale, come avrebbe detto Vittorio Gassman, con un grande avvenire dietro le spalle.
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